Sostenibilità e ambiente, digitale, 4.0, riforma della PA, giustizia: anche a valle della crisi di Governo, l’intero arco istituzionale sembra continuare a ignorare la principale partita che stanno giocando i paesi OCSE per il mantenimento del proprio vantaggio competitivo e della creazione di posti di lavoro qualificati, che è quella delle nuove tech companies globali: quelle startup finanziate dal venture business, che necessitano di un terreno favorevole alla loro nascita e crescita nel Paese per poter trattenere talenti.
Per recuperare il ritardo e fare il tanto atteso salto di qualità che ci consentirebbe di diventare finalmente competitivi nell’economia dell’innovazione, è di fondamentale importanza la creazione di una delega specifica, in capo a un ministro o a un sottosegretario, perché qualcuno si occupi specificamente ed esclusivamente di startup e venture business, andando a interfacciarsi con tutte le Direzioni dei Ministeri che avrebbero tradizionalmente competenza.
La soluzione, ovviamente, non sta tutta in questa figura, pure importante, ma serve un vero e proprio cambiamento di mentalità e approccio.
L’impatto dei ritardi nell’economia dell’innovazione
Negli anni, infatti, è ormai sconsolante riscontrare come il tema delle startup – nel coacervo di temi di cui ci si deve occupare con emergenze e lobby che tirano ciascuna per la propria parte – venga costantemente ignorato o minimizzato dalla classe politica, che al massimo si impegna in qualche misura sporadica fuori di una visione organica, e soprattutto senza una chiara comprensione strategica e prospettica della loro rilevanza. Un po’ come per il digitale solo una decina di anni fa.
Il problema è che il ritardo nella digitalizzazione di Pubblica Amministrazione e imprese tradizionali ha un effetto di appesantimento e rallentamento dell’economia esistente, ma il ritardo nella creazione di una vera economia dell’innovazione – come può essere definito il modello dei cluster territoriali di innovazione gemmato globalmente dalla Silicon Valley affrontato di recente nelle sue cinque componenti fondamentali – ha un effetto meno misurabile in modo analitico ma comunque molto più impattante negativamente: non eliminare i (numerosi) colli di bottiglia e non creare condizioni ottimali, in un mondo connesso e globalizzato sfavorisce l’attrazione di talenti dall’estero, e parallelamente favorisce l’emigrazione di talenti nostrani insieme a generare un deflusso di ricchezza privata verso investimenti in altri paesi.
Come si misura il successo degli ecosistemi (in Italia e nel resto del mondo)
È ormai un trend evidente per gli osservatori attenti, infatti, che le cosiddette “start-up innovative”, così definite in Italia per legge, abbiano poco a che fare con i campioni tecnologici globali, in quanto la logica del definire l’innovazione con requisiti di input è una negazione in termini: innovazione non è ciò che risponde a dei criteri di forma, peso, composizione e dimensione. Innovazione è applicazione di creatività all’avanzamento tecnologico nel fare business risolvendo un problema di un target di mercato. Il criterio imprescindibile dell’innovazione è che “accada”, cioè che qualcuno la realizzi, qualcuno vi investa e qualcun altro la compri, quindi il requisito è di output e non di input.
Nel resto del mondo, la misura del successo degli ecosistemi è basata sul trend degli investimenti in capitale di rischio, sulla creazione di posti di lavoro qualificati, sulla reputazione di ecosistema ed investitori, e sulle exit. E non, come in Italia, sulla numerosità delle imprese e sul fatturato medio, criteri che possono fotografare delle PMI ma non certo la qualità delle neonate grandi imprese di domani.
Comprendere questi concetti, e quindi tutte le problematiche connesse – che nello schema delle aree di competenza tradizionali del Governo attraversano ambiti che vanno dall’impresa, alla finanza, all’immigrazione, alla scuola e università, fino alla Pubblica Amministrazione – richiede una capacità ancora poco comune di sganciarsi anche solo mentalmente dagli schemi usuali di impresa e finanza e mettere a fuoco un tessuto socioeconomico e una “industria” molto atipica e trasversale ai settori tradizionali.
I tentativi (falliti) per un cambio di passo
Negli anni, i decisori politici che si sono succeduti nei vari Governi hanno raramente messo a fuoco l’ingranaggio nella sua interezza: ci ha provato Corrado Passera sotto il Governo Monti, ma lo Startup Act pur se lodevole nella ampiezza di vedute si fondava su assunti sbagliati. Le stratificazioni normative successive si sono sempre basate sul vedere le startup come “future PMI” e la gestione della ricchezza e l’incentivo all’investimento, conseguentemente, come un processo fondato sulla minimizzazione del rischio, che è un concetto coerente con la Piccola e Media Impresa ma del tutto sbagliato nel caso delle startup tech.
Dopo Passera è solo durante questa legislatura, prima con Luigi Di Maio e poi con Stefano Patuanelli, che c’è stata attenzione verso questo mondo. Ma l’attenzione si è finalizzata soprattutto nello stanziare risorse pubbliche per incrementare l’offerta di capitale di rischio da parte dello Stato. Pur se lodevole e meritorio, questo approccio è andato ad incidere solo su questo aspetto specifico, e lo fa solo in via temporanea in quanto le risorse direttamente allocate durano finché non si esauriscono.
La soluzione per un salto di qualità
La soluzione per il salto di qualità, invece, passa dall’inquadrare questo comparto come una industria a fallimento di mercato, e sul compiere azioni che rimuovano ostacoli e abilitino un terreno favorevole perché talenti imprenditoriali e ricchezza privata si incontrino e creino un volano virtuoso. È in questa ottica che lo Stato dovrebbe intervenire, non posizionandosi come “motore finanziario” ma come innesco nell’ambito di una serie di riforme urgenti che vadano a favorire la creazione di una filiera di successo.
Fare tutto ciò richiede di essere liberi da condizionamenti culturali propri della economia e della finanza tradizionale, perché nel paese l’equivoco che le startup siano delle future PMI e che il venture investing sia sostanzialmente del Private Equity di piccolo taglio è non solo diffuso ma anche particolarmente resistente ad essere superato.
Alla nascita del Governo Conte-bis per un momento era sembrato che tale delega fosse stata creata con la nascita del Ministero per l’Innovazione Digitale: purtroppo fu quasi immediatamente chiaro che tale Ministero nasceva come scorporo della Funzione Pubblica, e pertanto l’area di competenza di Paola Pisano era sostanzialmente sull’Innovazione – peraltro solo Digitale – della Pubblica Amministrazione, sebbene fosse in modo sfumato indicata una qualche possibilità di promuovere attività interministeriali.
Conclusioni
Oggi che siamo agli albori della nascita di un Governo voluto da Sergio Mattarella che – primo tra tutti i Presidenti della Repubblica – si è dimostrato fortemente sensibile verso le imprese tecnologiche, i talenti, e i costruttori della società del domani, e guidato da un profilo con spessore da statista come Mario Draghi, è il momento di lavorare sul salto di qualità che l’Italia merita, che è alla propria portata, e che può essere realizzato con una serie di riforme e con una minima allocazione di risorse finanziarie pubbliche, e su cui siamo in colpevolissimo ritardo.
Non creare questa delega, e quindi evitare di mettere in priorità che l’Italia si unisca al lungo elenco di Paesi che ospitano la rete globale delle gemmazioni della Silicon Valley e cercano di far nascere le nuove Apple, Google, Facebook, Tesla, potrebbe metterci definitivamente fuori gioco nella partita delle grandi economie di domani, senza avere più la possibilità di recuperare.