Per la nuova PA, non bastano nuovi processi: bisogna cambiare le teste

Bene i 12 punti del “manifesto” di Piacentini, e soprattutto l’approccio all’innovazione, che per realizzarsi richiede un profondo cambiamento culturale e metodo di lavoro della PA. Per questo non possono mancare altri due punti:lo sviluppo delle competenze digitali e la ristrutturazione della macchina amministrativa.

Pubblicato il 30 Dic 2016

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Credo che i punti del programma descritti dal Commissario Straordinario Piacentini riescano a riassumere con efficacia le principali linee di intervento sul fronte della PA Digitale che si sono delineate in questi ultimi due anni prima con il documento strategia Crescita Digitale e poi con il Modello di evoluzione dell’IT delle PA. I 12 punti che indica Piacentini sono anche una felice sintesi del quadro strategico che il nuovo CAD, a livello normativo, dovrebbe aver definito con le nuove modifiche.

I temi fin qui configurati sembrano esserci tutti: sicurezza (fin qui uno dei temi a cui si è data meno attenzione), Spid, PagoPa, Anpr, ecosistemi di API, community di sviluppatori, servizi progettati su misura per i fruitori (idee queste ultime sulla quale si è già fondata l’impostazione concettuale delle linee guida per il design dei siti web), casa digitale del cittadino (visione di ItaliaLogin), procedimenti standard, dati.

A questi si aggiungono, o comunque trovano una collocazione di primo piano, due altri temi “normativi”, sui quali penso sia utile soffermarsi:

  • la “digitalizzazione” delle regole dell’amministrazione digitale, con un approccio che, più in generale, è all’interno di una logica per cui la semplificazione normativa si ottiene ponendo la norma a livello di principio regolatore e le regole tecniche, di dettaglio, a livello di algoritmo e quindi nativamente digitalizzabili e da digitalizzare, proprio per far sì che siano operativamente validate. E naturalmente eliminando, per questa via, le regole e le norme che le nuove opportunità tecnologiche permettono di rendere inutili (il caso del DURC citato da Alfonso Fuggetta è esemplare);
  • il carattere necessariamente internazionale delle regole sulla governance di Internet, che richiama l’Italia a produrre uno sforzo maggiore (di quanto fin qui fatto) per assumere un ruolo forte in ambito europeo su questa fondamentale tematica, ponendo in qualche modo in risalto, d’altra parte, la debolezza della spinta e del sostegno all’iniziativa dei “diritti di Internet” che pure andava in questa auspicata direzione.

Rimangono però, a mio avviso, sullo sfondo, credo troppo sullo sfondo, alcuni temi centrali per l’innovazione della PA, proprio perché concordo appieno con quanto afferma Piacentini, e cioè che “l’innovazione non è un punto di arrivo ma un percorso continuo e non ci si può mai permettere il lusso di sentirsi arrivati: domani si deve sempre far meglio di oggi. L’approccio iterativo, cioè uscire con versioni inizialmente parziali e imperfette per poi in seguito rilasciare versioni successive sempre migliorate (rispondendo alle osservazioni fatte dagli utenti), è un tratto distintivo dell’industria digitale. Non succede così per un vezzo ma perché questo – con una tecnologia in costante e rapidissima evoluzione – è l’unica strada per l’innovazione, garantendo un prodotto facile da usare e sempre all’avanguardia”.

Affermazione chiara, vero “manifesto culturale” per attuare l’innovazione in un’organizzazione.

Affermazione che, per essere realizzata nella PA, ha bisogno di alcune condizioni fondamentali, temi centrali che hanno bisogno di attenzione e interventi:

  • la ristrutturazione della macchina amministrativa, che non si esaurisce nell’indispensabile e già ambiziosa “reingegnerizzazione dei processi grazie alle nuove tecnologie”, ottimamente sottolineata da Piacentini, ma che richiede anche un profondo scardinamento delle modalità di lavoro, così da realizzare una transizione effettiva dai silos ai processi trasversali, dai controlli autorizzativi e sul tempo di lavoro alle verifiche sul raggiungimento degli obiettivi, dalla logistica del lavoro per uffici funzionali a un approccio in chiave smart working;
  • lo sviluppo delle competenze digitali, prima di tutto all’interno della PA, a tutti i livelli e in tutte le aree, dalle competenze per il lavoro all’e-leadership, con una diffusione e una pervasività tale da rendere la “PA digitale”, da argomento di nicchia (come è attualmente) ad argomento obsoleto e poco significativo (perché non ha senso una PA “non” digitale). Ma sviluppo delle competenze digitali anche nella popolazione, perché l’Italia è il Paese che, secondo l’ultima rilevazione 2016 di Eurostat in ambito di Digital Economy e Society, ha ben il 25% di persone che non hanno mai utilizzato Internet (e il 57% di popolazione non ha sufficienti competenze digitali). Bisogna agire su questo fronte, perché altrimenti sarà difficile che possano svilupparsi dei servizi digitali con fruitori che non possiedono (sufficiente) consapevolezza digitale. Tutto si tiene. Il circolo virtuoso che si vuole innescare ha bisogno di cittadini consapevoli.

Infine, la collaborazione tra le amministrazioni come metodo di lavoro. Su questo il team per la trasformazione digitale si sta già muovendo, e sta avviando i primi percorsi. Occorre però fare in fretta, perché non rischiamo soltanto di perdere opportunità e di ritardare la diffusione delle esperienze e delle buone pratiche: rischiamo di utilizzare male o poco le risorse disponibili. Sarebbe molto utile un maggior raccordo, ad esempio, sul PON Metro (dove c’era – e forse ancora c’è – spazio per grandi iniziative di co-progettazione) o sul PON Governance (che avrebbe dovuto – e forse ancora può – accompagnare le iniziative trasversali di trasformazione digitale). Sarebbe utilissima e molto urgente una governance che spingesse a questo nuovo approccio le PA, in rete. Valorizzando l’apporto di tutti gli stakeholder, e magari istituendo la Consulta Permanente per l’Innovazione che ha trovato posto nel nuovo CAD.

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