algoritmi e lavoro

IA e data science possono salvare aziende e lavoro: come usarle bene



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Il modello di organizzazione aziendale nato nei primi anni ’90 sta presentando tutti i suoi limiti: nel nuovo millennio IA e data science emergono come principali abilitatori del business. Questa rivoluzione potrebbe travolgere molte delle organizzazioni esistenti se non si adattano a un nuovo modo di lavorare. Le leve per riuscire, gli step per farlo bene

Pubblicato il 28 nov 2023

Paolino Madotto

manager esperto di innovazione, blogger e autore del podcast Radio Innovazione



intelligenza artificiale ai act

Le grandi rivoluzioni industriali prima di essere delle rivoluzioni tecnologiche sono state delle rivoluzioni del modo di produrre beni o servizi. La tecnologia è stato l’abilitatore di queste rivoluzioni ma il fatto di avere una tecnologia non significa immediatamente determinare una rivoluzione nel modo di produrre.

La rivoluzione dei dati e il futuro delle organizzazioni

L’Intelligenza Artificiale applicata all’organizzazione è la maggiore rivoluzione dai primi anni ’90: le organizzazioni non riescono più a vivere in una società sempre più complessa senza adattarsi in tempo reale a ciò che accade intorno a loro e questo non può essere fatto senza basare le proprie decisioni sui dati. I dati sono il grande abilitatore di business di questo millennio.

Questa rivoluzione rischia di spazzare via molte delle organizzazioni che stiamo vedendo finora se non si convertono verso un nuovo modo di lavorare utilizzando al meglio l’intelligenza artificiale e la scienza dei dati quale abilitatore di questo cambiamento.

Negli anni ’90, una situazione simile, ha portato a pesanti ristrutturazioni e offshoring che hanno creato nuovi mercati, oggi stiamo pagando i prezzi dell’offshoring in settori strategici e non possiamo permetterci quel tipo di ristrutturazione. Si può, e si deve, governare l’algoritmo e governare questa rivoluzione ma non si può evitarne il cambiamento. Sta agli attori in gioco farsi parte attiva per dirigere il cambiamento e non lasciare che lo guidi solo qualcuno o proceda alla deriva senza alcuna guida e senza alcuna meta. Quali sono le leve per farlo? Chi sono gli attori chiamati ad entrare in scena?

Le tecnologie come abilitatori del cambiamento

Non sono le tecnologie a dettare i cambiamenti sociali ma sono le tecnologie ad abilitarli, a rendere possibili nuove configurazioni organizzative che producono nuovi modi di vivere e di produrre.

I principi della macchina a vapore erano noti anche ai greci che tuttavia, semplificando molto, non avevano alcuna necessità di costruire treni per trasportare merci perché la produzione di merci non era così imponente come quella dell’Inghilterra dell’applicazione della catena di montaggio o dei telai meccanici. Quando le esigenze hanno imposto di ripensare al modo in cui si produceva queste hanno cercato delle tecnologie abilitanti che hanno consentito di produrre il salto necessario.

Nei primi anni ’90 abbiamo avuto la rivoluzione del Business Process Re-engineering e del Business Process Improvement, il primo più radicale e il secondo più equilibrato, che avevano come obiettivo quello di ripensare il modo nel quale si costruivano prodotti e servizi.

Le vecchie organizzazioni gerarchiche e burocratiche, guidate da manager che non avevano il problema di cosa voleva il cliente (la massima di Ford relativa al suo Model T: «Ogni cliente può ottenere un’auto colorata di qualunque colore desideri, purché sia nero.») e che avevano una organizzazione “fordista” ovvero divisa in rigide mansioni e una rigida organizzazione che prevedeva una divisione scientifica delle attività e delle competenze erano ormai inadatte al nuovo scenario sociale e al nuovo mercato. Questo modello organizzativo non è adatto ad innovare, a dare spazio ai talenti e a rispondere velocemente alle esigenze esterne.

Le grandi burocrazie sono suscettibili a fermarsi anche di fronte ad un piccolo evento non previsto. Internet da una parte e gli Enterprise Resource Planner (di cui SAP è il più noto esempio) hanno permesso di ridisegnare le organizzazioni riducendo fortemente la gerarchia e la separazione tra strutture organizzative, il modello organizzativo a matrice ha sostituito quello rigido gerarchico e la comunicazione all’interno delle organizzazioni è diventata in tempo reale grazie alla mail e oggi grazie perfino ai cellulari. I Manager dall’avere grandi strutture di segreteria a cui dettare le lettere dovevano scriversi le cose al computer, utilizzare l’ERP per approvare o meno richieste, ecc., le catene di comando sono state riviste e rese più flessibili e autonome, in grado di rispondere meglio agli imprevisti.

Non tutte le organizzazioni hanno cambiato completamente, quelle che erano in mercati protetti hanno cambiato meno (Pubblica Amministrazione ad esempio) o quelle che avevano mercati protetti, qui la spinta al cambiamento è stata frenata non di rado anche dallo stesso management che avendo raggiunto un equilibrio di potere ha frenato il miglioramento dei servizi e dei prodotti agli utenti finali. Talvolta si danno una immagine esterna innovativa ma nella sostanza rimangono ancora legate agli anni ’70. Queste organizzazioni coesistono con le altre anche se sono sempre più in difficoltà a rispondere in modo adeguato alle esigenze della collettività.

Costruire organizzazioni che si adattano alle persone

Le organizzazioni che sono emerse dagli anni ’90 hanno aumentato il numero di “teste pensanti” rispetto al modello fordista coinvolgendo molte più persone non solo nei task quotidiani operativi ma anche nel comprendere e agire per soddisfare la loro “mission”, molte attività sono diventate superflue (ad esempio le stenografe o il personale che portava le comunicazioni cartacee all’interno delle organizzazioni) altre esternalizzate dove costavano meno (provocando spesso i danni che vediamo ora su alcune catene di approvvigionamenti e licenziamenti). Tuttavia, tutte queste “teste pensanti” oggi non riescono a rispondere in modo adeguato alle esigenze di una utenza più esigente e preparata.

I clienti/utenti sono molto più esigenti e chiedono prodotti che si adattano alle loro esigenze ma anche i lavoratori chiedono di poter lavorare in un modo che si adatti meglio alla loro vita privata. La sfida che si apre davanti è quella di costruire organizzazioni che si adattano alle persone e che sono in grado da una parte di offrire ad ognuno ciò che cerca sia esso cliente o lavoratore e dall’altra di produrre con questo mix i risultati migliori per l’organizzazione. Per arrivare a questo ci vorrà molto tempo, dovranno cadere barriere ideologiche e culturali ma è indubbio che il processo è avviato. Le aziende che hanno bisogno dei migliori talenti sanno che la chiave per raggiungere questo obiettivo è quella di applicare smart working, riduzioni di lavoro o altro per favorire il lavoro e sanno che questo produrrà migliori risultati per i clienti che sono disposti a riconoscerli.

Adattarsi a una società sempre più frammentata, grazie ai dati e all’AI

Se pensiamo ad esempio al settore della moda ci accorgiamo che è sempre più difficile vedere una moda unica, o dei mass-media che monopolizzano tutta l’attenzione. La società grazie ai social media e ad internet è diventata sempre più frammentata e ogni cliente/utente ha le sue specifiche esigenze e se il fornitore non gliele da lo cambia, potendo comprare beni e servizi su scala globale. Questo ha un riverbero anche nella domanda di servizi nella PA perché i cittadini hanno sempre più delle esigenze specifiche e valutano la PA con il criterio di un servizio che deve funzionare sempre, che è in grado di venire incontro al cittadino e non viceversa e su questo misurano la politica.

Analizzare i dati e trasformarli in decisioni in tempo reale

In questo nuovo scenario sociale (e di mercato) si può rispondere solo analizzando continuamente grandi quantità di dati e trasformandoli in decisioni in tempo reale, questo non può farlo nessuna persona ma possiamo delegarlo agli algoritmi e dopo tornerò su questo punto. Abbiamo bisogno di organizzazioni in grado di “profilare” i prodotti/servizi che danno ai clienti sulla base di una “profilazione” dei talenti e delle esigenze delle persone che vi lavorano, che si basino anche su decisioni prese da sistemi predittivi. Questo non è un compito che possono fare dei manager umani, possono supervisionarlo ma non possono farlo. In questo contesto si fa fatica perfino ad immaginare a dei processi perché questi cambiano continuamente, è necessario concentrarsi sui “servizi” ovvero su oggetti che producono un output atteso in base ad un input e alle risorse disponibili sulla base di continui aggiustamenti e riconfigurazioni.

Gli esempi vincenti di Netflix e Amazon

Le aziende che stanno rispondendo meglio a questo scenario mutato e stanno ridisegnando il settore nei quale stanno operando sono quelle che utilizzando i dati e gli algoritmi. Pensiamo a Netflix, è riuscita a ridefinire l’intero panorama dei media potendo offrire ad ogni cliente esattamente quello che più gli piace. Ora anche Amazon Prime e altre piattaforme hanno seguito. I clienti non vedono l’intero catalogo ma quello che è stato scelto per loro sulla base dei dati e dei criteri dell’algoritmo. Stessa cosa con Spotify.

Amazon ha anche ridisegnato la logistica grazie agli algoritmi, a livello globale è in grado di fornire lo stesso servizio e ha dei tempi che nessun altro operatore della logistica poteva immaginare prima. Ha internalizzato ogni anello della catena logistica e ha fatto uso estensivo di algoritmi che pianificano e distribuiscono attività, misurano i risultati e si adattano in tempo reali a scenari modificati.

La tecnologia abilitatrice alla trasformazione organizzativa è l’intelligenza artificiale in grado di creare algoritmi per la distribuzione delle attività e per l’assistenza di chi lavora. In particolare, è l’idea di raccogliere quanti più dati possibile (e questo già molte aziende lo fanno ma non ne sono consapevoli lasciando questi dati inutilizzati) e trasformarli in decisioni in tempo reali anche sulla base di previsioni. Per fare questo sono necessari alcuni ingredienti fondamentali: i dati di input, definire cosa si deve ottimizzare, i vincoli dell’algoritmo.

Gli algoritmi sono la chiave

Nessun manager per quanto bravo può in tempo reale adattarsi alle esigenze dei clienti e dei propri lavoratori, per quanto bravo sia prenderà decisioni basate sui suoi convincimenti anche di fronte ad evidenze empiriche di segno contrario. Solo. Gli algoritmi possono permetterci questo, opportunamente guidati e monitorati.

Molto si è parlato sull’applicazione dell’AI e di come questo imponga condizioni di lavoro disumane alle persone, questo dipende dai vincoli che si pongono o da cosa si va ad ottimizzare non dipende dalla tecnologia ma da come si usa. Queste sono decisioni aziendali e non dipendono dalla intelligenza artificiale o da chi realizza il progetto ma da chi lo commissiona e lo guida. Per facilitare l’adozione di algoritmi di IA sarebbe bene che fossero coinvolti quanti più stakeholder a definire i vincoli e gli obiettivi, compresi i lavoratori perché l’IA si aggiunge a questi per aiutarli a produrre servizi e prodotti in modo differente.

Per quanto possa esserci una IA potente e “intelligentissima” questa costerà molto di più e sarà meno affidabile rispetto a decine o centinaia di persone motivate. L’automazione industriale potrà sostituire il saldatore o altre maestranze (peraltro da un lavoro duro e pericoloso) ma le persone si sposteranno in altre fasi della produzione, in generale l’unica cosa certa è che moltissimi lavoratori avranno a loro disposizione un assistente AI e avranno la propria giornata pianificata meglio se gliela pianifica un algoritmo ben fatto lasciandoli più liberi di concentrarsi sul loro lavoro e su quello che gli piace fare distribuendo ad ogni lavoratore le attività che sa fare meglio e gli piace fare di più sulla base di una profilazione.

Spesso nelle discussioni che tutti affrontiamo emerge la paura di avere un algoritmo che pianifica la nostra giornata lavorativa ma in realtà la paura deve essere concentrata su chi ha deciso i vincoli e gli obiettivi dell’algoritmo. Per la verità tutti abbiamo sperimentato di lavorare per manager che non sono in grado di pianificare, che fanno fare i compiti più volte anche quando è inutile, decisioni sbagliate che costano tempo e stress a chi lavora oppure decisioni basate su antipatie o simpatie che penalizzano qualcuno e premiano indebitamente qualcun altro. I manager persona, di per sé, non sono meglio dell’IA per le attività quotidiane. Sarebbe meglio avere un sistema di cui tutti conoscono e condividono le regole e che sia in grado di distribuire le attività sulla base di ciò che possono le persone tenendo conto della loro qualità di vita e lavoro così determinante per migliorare prodotti e servizi.

L’importanza di definire bene gli obiettivi

I dati di input sono presenti nelle aziende in modo estensivo, ci sono sempre più fonti di dati e sono sempre più piene di dati raccolti. Tutte le aziende ogni anno stanno aumentando la loro capacità di immagazzinare dati, eppure questi dati rimangono fermi in attesa di essere richiamati una o due volte nella loro vita. Oppure vanno in sistemi di datawarehouse dove sono analizzati sulla base di scenari definiti a priori dagli stessi manager basandosi sul loro “intuito” o della loro esperienza (con tutti i bias che questo si porta dietro). Non di rado i dati sono divisi in “silos applicativi” che non si parlano tra loro (a dispetto dei BPR) e nemmeno è semplice incrociarli tra loro. In realtà questa enorme massa di dati dormiente può essere una vera miniera da esplorare per data scientist in grado di conoscere le tecniche di analisi, gli strumenti per l’analisi e, almeno in parte, il dominio del problema, la cultura aziendale ovvero le domande a cui è chiamato a rispondere il business.

Cosa ottimizzare emerge dagli obiettivi strategici dell’organizzazione, cosa si prefigge di raggiungere, il livello di qualità che ritiene di offrire agli utenti/clienti. Definire questi obiettivi è importantissimo, sbagliare a definirli rischia di sprecare molti soldi e far fallire l’intera iniziativa. Per definirli è necessario declinare in dettaglio questi obiettivi, formalizzarli in modo quantitativo, renderli consistenti in base ai dati disponibili, definire i tempi entro i quali devono essere raggiunti (es. un algoritmo dovrebbe poter essere chiamato a ricalcolare la pianificazione di una linea di prodotti e servizi ogni 5 minuti).

Inserire i limiti dell’algoritmo

Infine, i vincoli che sono di fondamentale importanza, qui è necessario inserire i limiti che l’algoritmo deve avere nel suo funzionamento. Limiti quali, ad esempio, tener conto dei tempi di riposo delle persone o di intervalli e pause o altre condizioni che potrebbero essere necessarie per venire incontro a chi lavora, all’utente/cliente o al management. Anche questi vincoli vanno declinati in forma quantitativa, bisogna individuare quali sono gli eventi che segnalano il rischio del superamento dei vincoli, etc. Sui vincoli è necessario spendere due parole in più perché sono lo strumento con il quale l’organizzazione plasma l’algoritmo e gli fornisce i limiti di funzionamento. Ogni organizzazione ha la sua cultura organizzativa, quell’insieme di regole implicite che ne formano l’identità, queste sono difficile da esplicitare e codificare in forma quantitativa. Per definire i vincoli degli algoritmi e garantire il successo del progetto bisogna coinvolgere tutti gli attori che verranno coinvolti dal suo ciclo di vita. Management ma anche lavoratori e deve esserci la consapevolezza che ci potrà essere un tuning anche per molto tempo. È opportuno che il sindacato si faccia parte attiva di questo cambiamento anticipandolo preparandosi per tempo a contrattare i vincoli e cogestendo il monitoraggio.

Un algoritmo va sempre monitorato costantemente dalle persone sia perché gli algoritmi si adattano alle situazioni ma sono basati sulla statistica, intervengono molto bene se esistono dei dati che gli consentono di comprendere cosa sta accadendo ma sono molto inadatti a prendere decisioni di fronte ad una situazione eccezionale. Gli algoritmi sono “macchine che apprendono” non sono macchine pensanti. Di fronte ad un evento di improvviso o eccezionale devono intervenire le persone che devono prendersi in carico le decisioni con il loro sistema di valori, capacità di giudizio e valutazione, equilibrio, istinto, abilità ed esperienza. Per le situazioni di ogni giorno invece l’algoritmo può liberare energie da spendere in attività più creative ed interessanti. Chi non ama le attività creative non avrà vita facile con una IA che fa molto bene i task quotidiani.

Ridisegnare l’organizzazione per sfruttare i vantaggi dell’IA

Uno degli errori più rilevanti che si commettono è quello di considerare l’AI come una tecnologia “plug-and-play” e con ritorni immediati, qualcosa che si può inserire da qualche parte lasciando il resto così com’è. Ci sono delle applicazioni di questo tipo e possono produrre risultati ottimi ma i benefici dell’AI si possono ottenere solo ridisegnando l’intera organizzazione. E non saranno benefici immediati perché al di là della tecnologia il grosso lavoro è quello di ridisegnare la cultura aziendale, l’approccio delle persone al lavoro, permettere a quelli che devono utilizzare la tecnologia di prenderci confidenza e fiducia.

L’istinto di ognuno di fronte ad un algoritmo che pianifica al posto di una persona è quello di mettersi a verificare ogni giorno ciò che fa, non fidarsi o aspettarsi un ragionamento che ha portato a quelle decisioni e soprattutto valutarlo con il proprio sistema di pregiudizi poco fondato sull’analisi dei dati. Ma l’IA non ha spesso un ragionamento da mostrare, ha dati di input, obiettivi, vincoli e dati di input, è difficile trovare un ragionamento in una rete neurale, però si arriva al risultato. L’IA ha bisogno di tempo per affinare il proprio algoritmo, per apprendere dai dati, o per essere affinato sul campo perché non basta una ottima progettazione senza una prova sul campo e un affinamento. Quando ero ragazzo le auto avevano un periodo di rodaggio nel quale bisognava guidarle secondo alcune indicazioni e da come si faceva il rodaggio poi andava molto bene oppure così così, bisogna considerare una fase di rodaggio nell’introduzione dell’IA anche con alcuni aggiustamenti.

Come dicevamo il cambiamento più importante non è quello tecnologico ma quello di mentalità. Sebbene siano certamente necessari tecnologia e talento all’avanguardia, è altrettanto importante allineare la cultura, la struttura e le modalità di lavoro dell’azienda per adottare l’intelligenza artificiale. Purtroppo, la maggior parte delle aziende che non sono nate digitali hanno una mentalità avversa a quella necessaria per l’organizzazione moderna. All’interno delle organizzazioni chi avverserà di più l’introduzione dell’AI saranno quelli che non la conoscono e, ancora di più, quei manager che vogliono mantenere posizioni di potere.

I tre cambiamenti necessari per vincere la sfida dell’IA

Si possono individuare tre cambiamenti principali necessari:

Passare dal lavoro a silos alla collaborazione interdisciplinare e interdipartimentale

Si ottengono migliori risultati se l’organizzazione supera i vincoli dei silos organizzativi e si riconfigura focalizzando gli obiettivi più che come organizzarsi e mantenere gli equilibri interni. Questo significa che le attività devono poter essere pianificate in modo estensivo su tutte le risorse aziendali con gli stessi criteri e con gli stessi vincoli e premiate con lo stesso metro in base agli obiettivi raggiunti. Devono ridursi le segmentazioni per permettere di distribuire le attività dove ci sono risorse al fine di consentire ad ognuna di esse di lavorare equamente.

Dal processo decisionale basato sull’esperienza e guidato dai manager al processo decisionale basato sui dati

Siamo abituati a processi decisionali top-down ma questi con l’ausilio dell’IA non hanno senso. Le decisioni vengono dai dati non dal comando ed è necessario che una volta fissati obiettivi e vincoli si dia fiducia ai risultati. Ovviamente, come dicevamo prima, bisogna monitorare l’AI come qualsiasi macchina e anche di più ma l’idea di confrontare una decisione basata sui dati con una intuizione o la propria esperienza è deleterio. Nessuna intuizione può essere meglio dei dati e nessuna esperienza può arrivare a gestire e valutare la quantità di dati che può digerire un algoritmo in tempo reale. D’altra parte, le decisioni umane sono state studiate molto approfonditamente[1] e soffrono di diversi pregiudizi come, ad esempio, il bias di conferma che spinge la mente umana a selezionare le informazioni in accordo alle proprie convinzioni ignorando quelle che le contraddicono e altre tipologie di bias. Da questi studi si evince che la decisione in mano ad una persona non ha nulla di meglio di una decisione automatizzata quando questa sia limitata ad un ambito, vincolata e monitorata.

I manager con una visione strategica sono quelli che hanno esteso l’autonomia delle decisioni contingenti e quotidiane per spostare il loro interesse dove creano maggior valore e possono dare un contributo di visione all’azienda.

Da una cultura avversa al rischio e rigida ad un modello agile, sperimentale e adattabile

Le organizzazioni devono cambiare l’idea che una applicazione di IA debba funzionare pienamente prima di cominciare ad adottarla. In realtà molte volte l’approccio migliore è quello “agile” costruire dei piccoli nuclei e farli crescere aggiustandoli man mano che crescono. Questo nell’IA è ancora più valido per più motivi. Questo perché i dati cambiano continuamente in input e ogni nuova interazione provoca il ricalcolo per definire gli obiettivi, in sistemi che fanno della loro capacità di essere sensibili ai cambiamenti il cuore è possibile che sia necessario un fine-tuning prolungato prima di arrivare al meglio delle loro potenzialità. È frequente che in corso di opera emergano nuovi vincoli da inserire o parametri da correggere per fare in modo che l’algoritmo possa funzionare al meglio. È un lavoro molto “artigianale” e richiede che le persone che ci lavorano siano esperti matematici anche con diversi anni di esperienza a macinare numeri e gestire problemi complessi. Talvolta quando si introduce un algoritmo in una organizzazione cambiano i comportamenti delle persone inficiando in parte i dati utilizzati per l’apprendimento e dunque è necessario fare degli accorgimenti nel modello per essere sicuri che tutto si tenga insieme. Con un poco di tempo le cose si assestano ai livelli ottimali. Ma accade anche che le persone si facciano condizionare e assumano comportamenti diversi da quelli naturali perché si sentano osservati dall’algoritmo o intimoriti, anche in questo caso i dati prodotti da questi comportamenti vanno scorporati da quelli dati in pasto al modello ovvero vanno fatti dei nuovi accorgimenti al modello. Introdurre un algoritmo nella propria organizzazione non è un lavoro “plug-and-play” ma i benefici che può portare ripagano ampliamente questa fase, come insegnano le aziende che nel mondo stanno andando in questa direzione.

Conclusioni

Stiamo di fronte ad una nuova rivoluzione organizzativa che è inevitabile, il modello di organizzazione aziendale nato nei primi anni ’90 sta presentando tutti i suoi limiti nel nuovo contesto globale e l’Intelligenza Artificiale è la tecnologia abilitante a questo cambiamento. Da un modello basato sul Business Process Re-engineering stiamo andando verso un modello di Self-Adaptive Business Processes[2].

Non è la tecnologia che determina la perdita di posti di lavoro ma è il come questa viene utilizzata e qui contano più che i bit e i byte i rapporti sociali tra forze produttive, il ruolo del sindacato e quello dell’impresa. Bisogna governare questo fenomeno e per governarlo è necessario che tutte le forze in campo trovino il modo di incidere in questa rivoluzione anche conoscendo meglio l’Intelligenza Artificiale perché non si può governare ciò che non si conosce. In ogni caso per ora mentre assistiamo a racconti terroristici su come potrebbero andare le cose vediamo applicazioni di supporto alle persone, assistenti alle attività quotidiane.

È chiaro che una parte della forza lavoro può essere “spiazzata” ed espulsa ma questo non avverrà da un giorno all’altro ed è compito di tutti, in primis della politica, più che fare regole generiche programmare per tempo reskilling e upskilling e un sistema di vincoli che impediscano di inserire negli algoritmi ciò che non è possibile nella normativa del lavoro.

Gli algoritmi applicati alle organizzazioni possono migliorare notevolmente ciò che si produce e come si produce a vantaggio di tutti, si può aumentare la produttività senza aumentare il lavoro ma redistribuendolo meglio o alleggerendolo delle attività monotone e ripetitive. Questa rivoluzione organizzativa ridisegnerà nei prossimi decenni le nostre organizzazioni, avremo servizi e prodotti personalizzati, assistenti che ci aiuteranno nelle attività quotidiane più svariate, dal fissare una riunione controllando la disponibilità di tutti i partecipanti a leggerci un articolo mentre siamo in macchina intenti alla guida a farci un piano quotidiano di lavoro che tenga conto che siamo in smart-working e abbiamo palestra.

Tutto questo non sarà ”un pranzo gratis” ma con l’impegno di tutti e non delegando le scelte solo a qualche CEO di big-tech potremmo trarne un diffuso beneficio lungo i livelli delle nostre organizzazioni e nella società.

Note


[1] https://www.giuseppemotta.it/bias-cognitivi-ovvero-come-i-pregiudizi-influiscono-sul-ragionamento/

[2] https://link.springer.com/article/10.1007/s11334-021-00417-3

https://eosglobe.medium.com/the-rise-of-adaptive-process-management-in-the-bpm-industry-7fa0267364f6

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