La politica italiana parla sempre di più di digitale. A volte sembra farlo con competenza ma quasi sempre lo fa con la voce impersonale dei discorsi preparati da qualcuno e letti senza convinzione e coinvolgimento. La sensazione, a volte, è che la nostra politica, e la nostra amministrazione con essa, sia semplicemente estranea alla trasformazione digitale.
A differenza di molte aziende che, pur lentamente e a fatica, stanno spingendo sul rinnovamento, la pubblica amministrazione, invece, è ancora spettatore immobile di questa trasformazione. Se dovesse fare i conti con il mercato sarebbe sparita come un qualsiasi Blackberry o Blockbuster.
Manca la norma, manca la leadership politica, manca la cultura, manca la sanzione, manca la chiarezza, manca la direzione politica, manca il coinvolgimento delle amministrazioni locali, manca il ruolo forte delle Regioni, manca la regola tecnica, manca la nomina dell’RTD: semplicemente è una realtà che sembra non voglia avere nessuna attinenza con la trasformazione digitale.
Cerco di spiegarmi con una carrellata degli elementi di cui si nutre l’innovazione la fuori per capire quanto lontani siamo.
Tutti i “vizi” che affondano l’innovazione nella PA
La burocrazia conservativa affonda nelle sabbie mobili qualsiasi innovazione. Il codice degli appalti è fondato sul presupposto che siamo tutti corrotti e impedisce l’accesso alle aziende più snelle ed innovative lasciando spazio agli esperti di norme con in organico più azzeccagarbugli che sviluppatori di software.
La classe dirigente non ha la motivazione necessaria ad intraprendere una rivoluzione di mentalità, di metodo, di fini e si ostina a vedere il digitale come una questione tecnologica e non socio economica.
I palazzi sono pieni di avvocati, che, non me ne vorrà la categoria, non sono sicuramente i professionisti più adatti a riscrivere le regole della relazione digitale con i cittadini. Non vedo nessuno che possa spalancare le finestre degli uffici ingombri di scartoffie, e fare entrare il vento della collaborazione, della condivisione, della fiducia reciproca, dei processi snelli e dell’agilità che sono la spina dorsale della trasformazione digitale.
In questi ultimi anni ho seguito il processo di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione italiana dall’interno. Mi sono occupato direttamente di servizi digitali per le nostre amministrazioni e mi sono assunto, con entusiasmo, la responsabilità di legare a questo mercato le sorti di un prodotto, leggi di un gruppo di persone, del loro lavoro e delle loro aspettative.
Da una parte c’era la spinta propulsiva del fiorire di normative, obblighi, Team, nuove figure dirigenziali, e dall’altra avevo le competenze di un’organizzazione che padroneggiava il design, l’open source, lo sviluppo su architetture abilitanti, la mentalità agile e i paradigmi dello human centered. Era il momento giusto ed ero al posto giusto.
Poi in un percorso di specializzazione per consolidare le competenze da CDO (Chief Digital Officer) ho avuto l’occasione di tornare a guardare la trasformazione digitale da un’altra prospettiva, la prospettiva di chi si confronta con il mercato, quindi le aziende private e, ancora più illuminante, la prospettiva di chi il mercato lo condiziona, le star, per così dire, delle innovazioni disruptive.
Il digitale non è una cosa che arriverà, non è l’ultimo trend tecnologico di cui parlare e di cui domani ci scorderemo senza averlo adottato, per cominciare il dibattito su una nuova buzzword. Il digitale lo maneggiamo tutti i giorni, anzi, il digitale ci ha già, letteralmente, cambiato la vita. Ha cambiato le relazioni sociali, le abitudini di acquisto, l’accesso alle informazioni, il lavoro. Serve davvero ancora ripeterlo?
La rivoluzione copernicana messa in atto dagli imprenditori della quarta rivoluzione industriale, che ha messo al centro del sistema la persona, ha già fatto scomparire mercati e prodotti e ha già trasformato interi settori fin dalle radici delle abitudini e delle aspettative degli utenti. Il commercio, l’ospitalità e il turismo, la mobilità, la logistica, l’entertainment e media, le banche le assicurazioni. Serve davvero ancora fare esempi su questo?
Inutile dire, quasi tutta la narrazione del digitale, la sua lingua, i suoi dialetti, la sua letteratura arriva da oltreoceano dove ormai si tratta di modus operandi e mentalità ben codificate e consolidate. L’imprenditoria nostrana ha iniziato a masticare questa lingua e ha iniziato a reagire in modo più o meno agile, e gli aggettivi non sono usati a caso, al cambiamento in atto.
Certo, viste le caratteristiche del nostro mondo dell’impresa molto sbilanciato sul manifatturiero, i temi legati all’innovazione di prodotto o di processo industriale sono più maturi e la Digital Transformation, più propriamente detta, ha ancora il profumo della terra dell’oro verso cui si muovono le prime carovane di avventurieri. La spinta al rinnovamento ha, comunque, raggiunto il punto di non ritorno.
Start with Why
Inizio da questa celebre esortazione di Simon Sinek che ha messo in chiaro che cosa determina il successo di qualsiasi impresa, intesa non solo come organizzazione economica ma proprio come iniziativa o sfida.
Sinek ci spiega che il successo delle grandi imprese è determinato dalla chiarezza e dalla lungimiranza con cui i leader che le conducono rispondono alla domanda perché lo fai.
Sinek ci parla di tre aspetti su cui le organizzazioni sono chiamate a far mente locale. Precisamente su “che cosa” fanno, “come” lo fanno e il “perché” lo fanno.
Il “che cosa”, dice, lo sanno tutti, il “come” tanti cercano di metterlo a fuoco e raccontarlo il “perché” quasi sempre sfugge.
I grandi leader, capaci di portare a termine progetti su cui nessuno avrebbe scommesso, che sfidano il buon senso e che cambiano le regole del gioco, sono ovviamente spinti dal “perché”.
Per fare un esempio noto a tutti Sinek racconta questi tre gradi di consapevolezza con la storia di Apple. La risposta al “cosa fa” per Apple è: Computer, al “come” è: con attenzione al design e al piacere d’uso. Ma è il “perché” che le ha permesso ad Apple di cambiare letteralmente il mercato.
Apple si muove, o meglio si è mossa, guidata da un leader che faceva innovazione perché voleva cambiare lo stato delle cose, voleva cambiare il modo con cui le persone vivono, voleva influenzare le persone affinché pensassero in modo differente. Think Different.
E infatti non ha continuato a fare computer ma ha cambiato le regole in più mercati anche al di fuori del proprio settore industriale. Fateci caso Apple ha riscritto le regole sul mercato dei telefoni, della app, della musica. Non mi dilungherò oltre, il discorso di Sinek forse è noto a tutti, ha 10 anni e i suoi video su youtube fanno milioni di visualizzazioni.
Vi invito solo a rivolgere queste domande alla guida politica dei nostri enti o ai nostri dirigenti o ai Responsabili per la Transizione al Digitale. Io mi aspetto risposte del tipo: Cosa vogliamo fare? Digitalizzare i servizi al cittadino. Come vogliamo farlo? Con gli strumenti del Design dei servizi e con i cittadini al centro (sono un ottimista, ho immaginato dirigenti al passo con i tempi), ma sul perché, immagino emergano delle incertezze.
Forse, direbbero, per aumentare l’efficienza, o perché è obbligatorio, o qualche altro motivo pratico. Tutte cose che non mi sembrano trascinanti, o meritevoli di grossi investimenti umani ed economici o che giustifichino sforzi di trasformazione e scelte coraggiose quali quelle che la rivoluzione digitale richiede.
La forza del perché nella PA
Ricordo ancora un bell’esempio della forza del perché nella PA. Il sindaco di Firenze, in apertura di un evento di Forum PA sulle smart city ha raccontato dell’approccio di Firenze al tema degli Open Data. Non ha parlato di “cosa” ha fatto Firenze, o del “come” lo ha fatto, raccontando di formati di dati e tecnicismi, ha parlato del “perché”.
Il Sindaco Nardella ha ricordato che chi detiene i dati e le informazioni detiene il potere, di come i sistemi di governo autoritari siano per questo gelosi dei propri dati e che, al contrario, una democrazia che ha per principio la restituzione del potere ai cittadini debba mettere i dati e le informazioni nella loro piena disponibilità. Ha parlato dei progetti sugli Open Data come di un esercizio pratico di libertà e democrazia.
Quante volte abbiamo sentito che per i progetti di innovazione non ci sono risorse? Pensate che per un amministratore spinto da una motivazione quale quella di restituire potere ai cittadini e di esercitare la vera democrazia, qualche decina di migliaia di euro siano risorse introvabili?
Ho personalmente visto cancellare progetti dal valore più basso di un qualsiasi patrocinio alla sagra della pannocchia e questo semplicemente perché nessuno aveva chiaro il “perché” era necessario fare quel determinato progetto.
Se i nostri dirigenti e politici non hanno una visione e non hanno chiaro il perché innovare, al massimo potremmo aspettarci che trovino i fondi per le licenze degli antivirus e non è scontato neppure questo.
I 4 principi del “Manifesto Agile”
Pietra angolare dell’era digitale è la mentalità Agile. Derivata da un manifesto disarmante per semplicità e strabiliante per potenza, la mentalità Agile è la polverina magica che permea i progetti di trasformazione.
Si tratta di un manifesto nato quasi vent’anni fa (2001) per dettare le regole per lo sviluppo del software che ha valicato i confini delle tastiere dei geek e permeato il lavoro di tutti gli innovatori di questo inizio di millennio.
Il manifesto agile si fonda su quattro principi che non devono trarre in inganno per la loro semplicità perché nascondo implicazioni che richiederanno anni per essere esplorate e su cui si sono scritti montagne di saggi e da cui sono derivati decine di metodologie operative.
I 4 principi sono:
Individuals and interactions over processes and tools
Le persone e le interazioni sono più importanti dei processi e degli strumenti.
Il coinvolgimento e la comunicazione tra tutte le persone coinvolte nel progetto, ma anche i bisogni e le caratteristiche dei singoli individui, sono una risorsa e un valore più importante rispetto agli aspetti tecnici, ai processi e agli strumenti utilizzati. Le persone sono al centro.
Working software over comprehensive documentation
E’ più importante produrre software funzionante che documentazione. Gli sforzi devono essere orientati al rilascio di valore. Il valore è il software di qualità, quindi rilasci frequenti con codice semplice, pulito, testato a prescindere dalla quantità di funzionalità rilasciate e soprattutto senza eccessivi investimenti in documentazione. Quindi documenti chilometrici con specifiche scritte nel chiuso degli uffici IT e non validate dal reale utilizzo degli utenti non sono una priorità. Un documento non potrà mai rappresentare efficacemente la realtà dei fatti potrà darne solo una descrizione poco efficace a fronte di un enorme investimento di tempo. Le minime funzioni perfettamente realizzate produrranno invece feedback dagli utenti che permetteranno la corretta evoluzione del software.
L’utilizzo di una applicazione rilasciata a rapide iterazioni sarà adottata dagli utenti in modo naturale e anche tutta la manualistica quasi sempre risulterà superflua.
Customer collaboration over contract negotiation
La collaborazione con i clienti è più importante della contrattazione.
La collaborazione diretta, il continuo confronto, il ciclo di rilasci, feedback e correttivi è la strada per produrre i risultati migliori. In ambito innovazione è impossibile conoscere a priori gli effetti e le aspettative di tutti gli individui coinvolti nel progetto è necessario procedere per tentativi..
Sicuramente agire come alleati alla pari per uno scopo comune è l’unica possibilità. I contratti vincolanti, le documentazioni da approvare firmare con cui le parti cercano di fissare paletti e garantirsi da assunzioni di responsabilità o colpe non sono la via.
Responding to change over following a plan
Bisogna essere pronti a rispondere ai cambiamenti oltre che aderire alla pianificazione.
Spesso i cambi di rotta sono radicali e richiedono un bel lavoro di squadra. Nel terreno dell’innovazione pura il dettaglio delle funzionalità più apprezzate dagli utenti, i tempi di rilascio, i risultati attesi non sono quasi mai identificabili a priori e l’adattamento, la reattività, l’agilità appunto, sono qualità fondamentali. Il team dovrebbe essere pronto, in ogni momento, a modificare le priorità, le metodologie, gli output di lavoro nel rispetto dell’obiettivo finale. Adattarsi repentinamente è, forse, proprio l’essenza dell’agilità.
Il modus operandi degli enti
Ora, alla luce di questi principi provate a pensare a come un Ente affronta tipicamente un progetto. A quale agilità possa avere un foglio di lavoro con un elenco chilometrico di funzionalità scritte in riunioni chiuse tra un team IT e un team di consulenti. Pensate ai documenti di specifiche funzionali e tecniche decise a tavolino e redatte per mesi e mesi e poi allegate ad un capitolato tecnico. Pensate poi ad un bando che uscirà ancora dopo mesi, con indicazioni generiche su funzionalità, deadline e penali. Pensate a un potenziale fornitore che non conosce l’ambiente operativo e il contesto dell’Ente che deve decidere come realizzare delle interazioni complesse descritte da un paragrafetto di testo. Le aziende che adottano la metodologia Agile tendono in modo naturale a selezionare i clienti e a chiudere i rapporti troppo ingessati dalle dinamiche cliente/fornitore, limitando le possibilità della PA di accedere ai team più innovativi.
Dove può esserci l’innovazione fondata sull’adattamento ai feedback degli utenti? Dove sono gli individui più importanti dei processi? Dov’è il software funzionante rilasciato a rapide iterazioni versus la documentazione redatta a priori? Dov’è la collaborazione alla pari tra cliente e fornitore? Dov’è l’adattamento e la risposta rapida ai cambiamenti rispetto all’esecuzione di un piano rigido? In una parola dov’è l’Agile? Dov’è l’approccio che abilita l’innovazione di successo?
Non c’è, semplicemente.
Il lusso di fallire in fretta e la prototipazione
Nel ribollire frenetico del mercato delle start up americane si è fatto strada un concetto espresso dalla nota esortazione del fail fast, fallisci in fretta. Non si tratta di una provocazione o di un incentivo a buttarsi in imprese rischiose e fallimentari ma esorta a cercare di sbattere il più presto possibile la testa sulla principale sfida o sul principale rischio del nostro progetto. Trattandosi di idee innovative, su cui non si possono fare valutazioni a tavolino e confronti con l’esistente, è necessario trovare un modo di verificare la validità della nostra ipotesi più azzardata e quindi potenzialmente più dirompente.
Per fare alcuni esempi, Airbnb prima di qualsiasi questione sulla piattaforma aveva bisogno di capire se le persone erano disposte ad aprire le porte di casa propria a degli estranei, o Spotify doveva validare l’ipotesi che fossimo disposti a pagare un abbonamento per ascoltare musica che eravamo abituati a fruire gratuitamente.
L’idea è quella di non sviluppare tutto il progetto, il servizio o la piattaforma prima di aver visto se il presupposto su cui si fonda è valido. Fallire in fretta significa evitare di realizzare un’intero servizio prima di accorgersi che nessuno lo utilizzerà. Meglio che un’idea mostri subito il proprio limite e ci consenta di girare pagina prima di grandi investimenti di denaro e di tempo. Gli strumenti per fallire in fretta senza danni sono i prototipi e il così detto, Minimum viable product (MVP) che è la versione minima di un nuovo prodotto che consente ad un team di raccogliere la massima quantità di conoscenza validata sui clienti al minimo costo.
I prototipi possono essere di cartone, disegnati sulla carta, applicazioni interamente fake, o realizzati con diffuse applicazioni specifiche, la storia delle più famose innovazioni è costellata di aneddoti divertenti e curiosi per fantasia e arditezza dei prototipi.
Airbnb è nata mettendo in affitto le stanze dei fondatori mescolate in mezzo ad alcuni annunci fasulli, spotify è stata testata con un’interfaccia che caricava file audio da un archivio locale simulando lo streaming, il fondatore del primo e-commerce di abbigliamento acquistava i prodotti dopo che erano stati ordinati online sul suo sito e li consegnava personalmente, approfittando così anche di intervistare gli utenti!
Qualsiasi strategia è valida per verificare la caratteristica più critica del nostro progetto se fallisce in fretta ci è costata solo un prototipo se funziona ci ha sicuramente fornito nuove indicazioni su come procedere.
Ora immaginiamo questi principi in un qualsiasi progetto delle nostre amministrazioni? Chi ha mai letto un bando per una sessione di design di un servizio e per la sua prototipazione? Chi ha mai avuto occasione di testare idee e prototipi e realizzare prodotti solo dopo che hanno passato diversi livelli di validazione sul campo?
Oppure, anche come cittadini, quante volte, abbiamo avuto a che fare con interi servizi digitali o app piene di funzioni di cui non siamo nemmeno in grado di capire le etichette o i menù? Quanti servizi abbiamo visto progettare, descrivere, finanziare, realizzare per atterrare sul mercato e risultare inutili e inefficaci?
Human Centered design
Ed eccoci ad una delle parole chiave della digital transformation per cui anche il Team molto si è speso realizzando un sito dedicato pieno di indicazioni e strumenti pratici. Ma cosa dire in merito a chi comunica con i propri utenti a suon di cartelli A4 attaccati con lo scotch con messaggi che ci raggiungono sistematicamente quando è troppo tardi?
Non vi è mai capitato in un ufficio pubblico quando finalmente arrivate allo sportello di trovare il mitico foglio in Times New Roman corpo 72 con scritto “Il mercoledì solo per appuntamenti presi online” e ovviamente è mercoledì e voi non avete nessun appuntamento preso online? O il sempre verde “per la domanda portare numero 2 (due) marche da bollo!!!” Con i punti esclamativi a ricordare che anche l’impiegato è stanco di ripetervelo anche se voi è la prima volta che lo vedete nonostante vi siate procurati tutte le informazioni e i moduli online?
Io fatico di parlare di Human Centered Design a chi si ostina a scrivere “ Il richiedente dovrà presentarsi munito di documento di riconoscimento in corso di validità” invece di dire: Porta la carta di identità e controlla che non sia scaduta. Siamo proprio lontani.
Io non do colpe agli amministratori, dirigenti e politici dei nostri Enti anche se certo, ogni ruolo che prevede delle responsabilità le sue colpe se le deve prendere, ma mi rendo conto della difficoltà di agire in chiave Digital all’interno di un ambiente che è l’anti Digital per eccellenza.