Su tutti i giornali i toni sono quelli roboanti del trionfo: riprendendo i comunicati del Governo, si dà la lieta novella della possibilità, a partire dal 15 novembre 2021, di scaricare i certificati anagrafici online in maniera autonoma e gratuita, per proprio conto o per un componente della propria famiglia, senza bisogno di recarsi allo sportello.
Certificati anagrafici online, buona notizia…
In effetti, non si può negare che si tratti di una buona notizia. Come chiarisce qui il Ministero dell’interno, si introduce un sistema integrato delle anagrafi della popolazione grazie al quale non solo i cittadini potranno ottenere on line i certificati anagrafici di proprio interesse, ma soprattutto i comuni potranno interagire con le altre amministrazioni pubbliche, le quali a loro volta saranno in grado di accedere direttamente alle banche dati anagrafiche per la gestione dei procedimenti di loro competenza.
Detto delle cose buone ed elogiato il lavoro del Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, non si può, purtroppo, fare a meno di esporre alcune considerazioni.
A partire dalla data di attivazione di questi “servizi” digitali: il 15 novembre dell’anno di grazia 2021.
…e tuttavia è un po’ tardi per rallegrarsi
Le date sono importanti. Perché se da un lato è corretto rallegrarsi dell’ingresso di un segmento significativo della PA nella modernità, dall’altro non si può non cogliere l’elemento gravissimo del ritardo imperdonabile col quale si giunge, alla fine, all’integrazione delle anagrafi (per altro, comunque connessa alla volontaria adesione dei comuni al progetto e non oggetto di un obbligo pesantemente sanzionato nei loro confronti) e alla disponibilità on line dei certificati.
Chi ha buona memoria, ricorda che risale addirittura al 1989 (siamo parlando, quindi, di 32 anni da, trentadue anni!) il Certimat: uno sportello, tipo Atm, che il comune di Verona mise a disposizione dei propri cittadini per consentire loro di produrre da sé proprio alcuni certificati anagrafici.
Ed è col dPR 445/2000, quindi si parla di 21 anni fa, che si introduce l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di consentire l’accesso diretto telematico tra esse. E’ sempre di quegli anni l’inizio della diffusione della connessione internet, mentre è del 2005, 16 anni fa il Codice dell’amministrazione digitale. E’ pur vero che il d.lgs 82/2005 è stato più volte modificato e rivisto, ma sono almeno tre lustri che si sviluppano norme e linee guida di ogni genere, volte a consentire esattamente la creazione di una piattaforma sicura, nella quale produrre e conservare documenti e provvedimenti, permettendo l’accesso ad essi a soggetti identificati e alle PA. Non dimentichiamo che la spinta allo Spid, la chiave d’ingresso a questi portali di servizio, si ha nel 2014 ed è dello scorso anno il “decreto semplificazioni”, che regola il punto unico di accesso e il portale delle notifiche.
Se ci sono voluti oltre 30 anni per passare dal certificato disponibile all’Atm (per altro su iniziativa isolata di un comune) al più banale dei “servizi”, cioè la disponibilità in rete dei certificati demografici, è evidente che qualcosa, anzi moltissimo, non ha funzionato come avrebbe dovuto.
Once only, questo sconosciuto
E non solo: se davvero fossero rispettate le norme sullo once only, probabilmente manco il cittadino dovrebbe avere bisogno di prendere un certificato da internet e mostrarlo a un’amministrazione o istituzione che quelle informazioni dovrebbe già conoscere. Se ci fosse una buona interoperabilità dei sistemi: ma forse se ne riparlerà con il cloud nazionale che – dice il ministro Vittorio Colao – unendo i database favorirà lo once only.
Ma, c’è un altro aspetto che non va trascurato. Sul Corriere della sera del 31.10.2021, l’articolo “Certificati, addio marca da bollo. Basterà lo Spid” evidenzia che grazie al nuovo “servizio” i cittadini potranno scaricare i certificati “dal proprio computer, senza più bisogno di recarsi agli sportelli degli uffici”.
Il paradosso dello smart working PA
Abbiamo letto bene: mentre una parte del Governo in questi stessi giorni è impegnato nella crociata per il rientro dallo smart working, in modo che gli impiegati “tornino agli sportelli”, contestualmente un’altra parte del Governo lavora (con un ritardo di lustri) perché non sia necessario per i cittadini recarsi agli sportelli.
Una contraddizione in termini rivelatrice del vero enorme problema sotto il quale sprofonda l’organizzazione della PA: la mancanza di consapevolezza di cosa sia davvero innovazione e digitalizzazione.
Soggetti come banche, assicurazioni, compagnie telefoniche e di trasporto, aziende per il commercio, invece, lo sanno benissimo e da anni. Da moltissimo tempo quasi nessuno si reca più presso le agenzie delle banche, che infatti chiudono a frotte; sono quasi spariti anche gli uffici delle assicurazioni, mentre si diffondono in modo sempre più oceanico le negoziazioni on line a qualsiasi livello.
Questi soggetti hanno capito cos’è un processo, distinguendolo dal procedimento. Nella PA sono ancora tutti convinti si tratti di sinonimi o che il processo sia un insieme di procedimenti.
Il processo, invece, è la determinazione di passaggi guidati, che conducono alla produzione di quello e solo quel prodotto. Il dirigente o i dirigenti non hanno, poi, bisogno di “firmare” il prodotto del processo, ma di “firmare il processo”, assicurare, cioè, che gli standard operativi, racchiusi in manuali conoscibili alle strutture interne e ai terzi, conducano verso un risultato specifico, certo e sempre quello. Il “procedimento”, invece, null’altro è se non un insieme di fasi connesse l’una all’altra, che conducono ad una decisione finale discrezionale, il cui contenuto finale non è predeterminabile.
Solo organizzandosi per processi è possibile innovare davvero, superando la concezione della telematica come una sorta di metafora computerizzata delle medesime fasi operative che si svolgerebbero su carta e in modalità analogica.
L’organizzazione per processi consente, dunque, di elaborare prodotti standard, come, appunto, un certificato.
E’ singolare che si sia arrivati molto prima a standardizzare ed avvicinarsi alla gestione per processi per attività certamente più complicate, come quelle del commercio e dell’edilizia, ove gli strumenti dello Sportello unico (sia pure non ancora in effetti in tutto paragonabili ad un servizio innovativo on line) hanno fortemente telematizzato le relazioni tra PA e imprese. Allo stesso modo, la fatturazione elettronica e la piattaforma dei pagamenti, certo più complesse della produzione di un certificato e dell’integrazione di banche dati con tracciati record centralizzati e standardizzati quali quelli demografici, ha preceduto la “innovazione” del portale Anpr.
Forse, si è fatto, però, il passo che fa comprendere chi sia il vero beneficiario della telematica, dell’innovazione digitale, dello Spid e dell’organizzazione per processi. Non si tratta del dipendente pubblico, che a ben vedere importa sempre più che sia adibito in modo formato e consapevole alla trattazione dei processi e sempre meno che agisca necessariamente inchiavardato alla scrivania di uno “sportello”; si tratta, invece, del cittadino, della famiglia, dell’impresa.
Il lavoro è “agile” non se consente al dipendente di lavorare “in pantofole” da casa, ma, al contrario, se permette di sfruttare in modo intelligente i tempi e i luoghi, specie di erogazione dei servizi.
Il cittadino costretto a chiedere ed ottenere il certificato come frutto di un procedimento e ad un terminale analogico, lo “sportello”, deve assoggettarsi a tempi di produzione e a tempi e modi di spostamento fisico scomodi: deve prendere dei permessi dal lavoro, deve affrontare il traffico, deve cercare posteggio, deve fare file, deve osservare il dipendente mentre produce il certificato. Tutti tempi di lavoro totalmente sprecati.
Il cittadino che riesca, invece, ad effettuare negoziazioni al livello di semplici interrogazioni di query, previa autorizzazione, può farlo, lui sì, da casa, o anche in vacanza, sul lavoro, su un treno, senza luogo e senza tempo.
Ma, se si evita al cittadino la fatica e la perdita del tempo necessario per recarsi “allo sportello”, allora si compie quel passo decisivo per capire che il lavoro “smart” nella PA non è permettere agli impiegati di stare in panciolle a casa, bensì di trasformare il loro operato. Guidarli verso il digitale, insegnare loro a produrre e pensare le operazioni in modalità diversa e adeguata ai nuovi processi digitali. E prendere atto che questi nuovi compiti e mansioni debbono assicurare la qualità del prodotto, il rispetto dei processi e dei manuali, prescindendo totalmente, anche in questo caso, da un tempo ed un luogo definito di produzione.
Qualsiasi crociata contro il lavoro agile, la diffusione, tardiva quanto inevitabile, di “prodotti” on line della PA non può che spingere verso la cancellazione degli sportelli fisici e la remotizzazione del lavoro. Quella vera, quella funzionale alle esigenze dei cittadini.