Lentamente l’Agenda digitale italiana avanza. Ha compiuto i primi passi negli anni 2003-2004, poi ha subito una serie di “stop-and-go”. Infine, dopo una lunga gestazione inCommissione trasporti alla Camera e nell’apposita cabina di regia creata dalgoverno tecnico, ha fatto un sostanziale passo in avanti con il decreto “Sviluppo 2”, uno degli ultimi provvedimenti del governo dei tecnici.
Non è stata abbandonata neppure in questi tempi di larghe intese, venendo citata dal Presidente del Consiglio Letta già nel suo discorso programmatico di fronte alle Camere. E spesso viene tirata in causa, non sempre a proposito, come una delle priorità per risolvere tutti i mali del Paese e risollevare le sorti della nostra economia, indebolita dalla recessione globale e dalle tante inefficienze del Sistema Italia.
Certo, una strategia di digitalizzazione seria ed efficace può portare benefici strutturali all’economia italiana. Penso al taglio dei costi della pubblica amministrazione ed al suo efficientamento, ma anche alle possibilità di sviluppo e accresciuta competitività per le PMI e alla conseguente creazione di nuova occupazione. La piena applicazione dell’Agenda Digitale può davvero equivalere ad una manovra di politica economica, ma ciò non significa che in questo non vi siano risvolti negativi o, meglio, criticità da gestire.
La prima fra tutte, in un paese sempre più anziano quale il nostro, è sicuramente rappresentata dal digital divide. L’eGovernment, la gestione digitale delle pratiche burocratiche o la digitalizzazione dei servizi sanitari o di mobilità, rischiano di escludere dalla piena fruizione dei servizi fasce importanti della popolazione più “adulta” e meno “computer literate”, ma non solo. Anche in molte dellenostre imprese, soprattutto quelle più piccole, manca spesso una vera cultura digitale.
Sono fenomeni da tenere ben presenti se vogliamo far sì che agli investimenti in termini di infrastrutture e agli sforzi che compiremo per digitalizzare il nostro Paese corrispondano benefici reali ed effettivi per tutti.
Non bastano, dunque, generici proclami. Occorre un piano governativo specifico che sappia anche raccogliere soluzioni e strade già messe in campo in altri paesi che hanno il medesimo problema. Un modo per venire incontro alla popolazione più anziana emeno digitalizzata del Paese potrebbe essere, ad esempio, quello già adottato con successo in alcuni paesi scandinavi, dove i ragazzi delle scuole superiori ricevono crediti formativi in cambio dell’aiuto offerto ai “nonni” in difficoltà difronte ad un computer. E’ un’iniziativa semplice ma efficace, che può avereanche altri effetti positivi oltre a quello sul digital divide, come la creazione di reti di solidarietà intergenerazionali e la lotta a certe forme disolitudine sia degli adulti che dei ragazzi.
Anche per quanto riguarda le PMI credo che si possaprevedere un sistema di “tutoraggio” basandosi, questa volta, su buone pratiche già in essere sul nostro territorio, da sostenere – dunque – ed espandere. È il caso, per esempio, di Google, che attraverso accordi con atenei ha messo a disposizione borse di studio per studenti che, opportunamente formati,vadano a portare le proprie competenze digitali nel tessuto industriale dellepiccole e medie imprese. E’ fondamentale, infatti, che il nostro sistema produttivo non perda le buone occasioni di networking, abbassamento dei costi,sviluppo e crescita offerte dal Web e dalle nuove tecnologie.
Non credo, invece, che la soluzione per colmare il digital divide possa essere rappresentata dalla televisione, e in particolare dal servizio pubblico radiotelevisivo, come accadde negli anni ’50 grazie ad un piano di alfabetizzazione che costruì, di fatto, la cultura nazionale. Nell’era dell’interattività la televisione è troppo unidirezionale per poter svolgere una funzione difficilecome questa, e forse proprio per questo essa stessa fatica a trovare nuovi modelli d’offerta per pubblici diversi. Ma certamente può aiutare a diffondere, se non le competenze digitali,una cultura del digitale e, magari, a superare alcune resistenze culturali che si annidano tra noi e, ancora troppo spesso, nella nostra pubblica amministrazione, che sembra essere la meno propensa a far spiccare al nostro Paese il salto decisivo verso la digitalizzazione.