Bitcoin ed Ether (su piattaforma Ethereum) seguono filosofie piuttosto diverse. Il primo è nato quasi da una sfida intellettuale, almeno secondo la leggenda. Prevede un tetto alle emissioni (21 milioni di unità, l’80% dei quali già emessi nei primi 10 anni) e queste sono programmate per diminuire nel tempo secondo una progressione geometrica, con un dimezzamento del premio che spetta ai miner ogni 4 anni circa.
Monitoraggio fiscale e criptovalute: cosa cambia con la sentenza del TAR Lazio
Le caratteristiche di Ether/Ethereum[1]
Ether, invece, ha un’origine dichiaratamente più commerciale. E’ nato dall’iniziativa di un gruppo di investitori e fa parte di una piattaforma software integrata, creata nel 2013 da due persone in carne e portafoglio, Vitalik Buterin e Joseph Lubin, che si chiama Ethereum e offre anche sevizi accessori come il voto elettronico, un sistema di protezione della proprietà intellettuale, la registrazione di domini internet e altro. A differenza del Bitcoin, il sistema Ethereum si appoggia su un pool di imprese, banche, università (come la Cornell) e perfino una banca centrale (quella del Canada) e che comprende, tra gli altri, colossi come Toyota, Samsung, Microsoft, Intel, J. P. Morgan, Deloitte, Accenture, Banco di Santander, ING, MasterCard, Cisco e Sberbank. Recentemente, perfino una istituzione dell’Unione Europea, la Banca europea degli investimenti (BEI), ha lanciato un bond biennale proprio sulla piattaforma Ethereum.
Forte di queste referenze, Ether può permettersi non prevedere tetti di emissione, al contrario del Bitcoin, e di promettere una inflazione programmata del 2%, come una qualsiasi banca centrale. Il suo maggiore punto di forza è l’efficienza dei sistemi di validazione dei nuovi blocchi, che, secondo ig.com, è di appena 15 secondi: molto più del mezzo secondo offerto dalle criptovalute di ultimissima generazione come EOS.IO, ma molto meno dei 10 minuti circa richiesti da Bitcoin. In tal modo ETH riesce a gestire 60 transazioni al secondo contro le 2800 di EOS.IO, che sono comunque una frazione delle 20-30mila operazioni consentite da qualsiasi carta di credito. Tuttavia pare che questa velocità verrà presto raggiunta dalle nuove piattaforme di scambio progettate per il Web 3.0.
Ovviamente la maggiore rapidità di alcune criptovalute ha un costo, seppure minimo, in termini di sicurezza, perché comporta solo una verisone ridotta dei controlli ridondanti previsti per le transazioni in bitcoin. L’altro punto di forza di ETH è la possibilità di programmare pagamenti e riscossioni in modo molto più flessibile di BTC: questo significa che tra qualche anno si potrà dire addio a strumenti medievali (nel senso storico del termine) come le cambiali, le caparre e le fideiussioni, ma anche ai notai e al personale addetto a queste operazioni.
Grazie a questi vantaggi (tecnologici, ma soprattutto di mercato), non sorprende che Ether abbia rapidamente guadagnato terreno sul Bitcoin, al punto che qualcuno comincia a ipotizzare un possibile sorpasso della rispettiva quota di mercato nei prossimi mesi.
In realtà, fino a gennaio di quest’anno le due criptovalute avevano mantenuto un rapporto di scambio sostanzialmente costante (attorno a 30 ETH per un BTC), mentre ora un BTC vale poco più di 10 ETH. L’ETH ha anche resistito meglio agli attacchi del patron di TESLA, che ha annunciato che non accetterà più BTC in pagamento delle sue auto,[4] rafforzati dalle dichiarazioni della Banca centrale cinese e di altre banche centrali, che mettevano in guardia per l’ennesima volta sulla eccessiva volatilità di tutte le criptovalute e dall’allarme lanciato da Warren Buffett sul “veleno per topi al quadrato” che sarebbe nascosto in questi strumenti. [5] A fronte di una perdita di circa il 30% delle quotazioni del BTC rispetto al record di fine aprile, durante il mercoledì nero delle criptovalute l’ETH ha ceduto solo il 20% rispetto ad una settimana prima. Da allora entrambe le valute hanno segnato solo recuperi marginali, forse in attesa di nuovi rumors che agitino il mercato.
Il tema volatilità
Secondo Coinmarketcap, all’indomani del crollo delle criptovalute innescato dal ripudio del Bitcoin da parte di Elon Musk, il 60% del mercato (pari a poco meno del Pil italiano, ovvero circa 1500 miliardi di euro) è costituito da due sole monete: il Bitcoin (BTC, che rappresenta circa il 40% del circolante) e l’Ether (ETH, 20%). Tuttavia si tratta di cifre destinate a variare molto rapidamente, perché una delle principali caratteristiche di questi strumenti è proprio la loro volatilità. Ad esempio, fino a febbraio 2017 il BTC copriva quasi il 90% delle transazioni, che però ammontavano a meno di 2 miliardi di euro.
In effetti, la volatilità è un difetto che ostacola una maggiore diffusione di tutte le criptovalute come mezzo di pagamento e di riserva di valore. E’ vero che una valuta gestita da un algoritmo non è soggetta a rischi politici come quelle reali, ed è anche indubitabile che l’inflazione ha ridotto il potere d’acquisto di un tipico asset rifugio come il dollaro ad un ventesimo di quello che aveva nel 1913. Tuttavia la variabilità delle quotazioni di BTC e ETH all’interno di uno stesso giorno e nell’arco di poche settimane supera quella delle monete tradizionali e scoraggerebbe qualsiasi risparmiatore non professionale.
Quotazioni in euro e capitalizzazione di BTC e ETH
(indici 4/6/2020 = 100 per le quotazioni)
Fonte: Coinmarketcap
(*) Rapporto tra la capitalizzazione del BTC e quella del ETH.
Conclusioni
Tanto per dare un’idea della dimensione delle perdite che si possono accumulare investendo in questi strumenti, il 19 maggio, nel suo momento peggiore, il BTC ha perso quasi il 30% del proprio valore in una sola seduta, inoltre una gestione “sfortunata” del proprio portafoglio (con acquisti al massimo e vendite ai minimi) avrebbe portato a perdite superiori al 10% in un solo giorno in 27 casi negli ultimi 365 giorni.
Per l’ETH questo scenario si è verificato quasi 60 volte, con una perdita massima di oltre il 40% all’indomani degli attacchi di Elon Musk. Nella media degli ultimi 365 giorni, sbagliare il momento dell’acquisto e della vendita all’interno di una sola giornata di contrattazione avrebbe portato a perdite massime del 4.9% per il BTC e del 6.6% per l’ETH. Per questo motivo i consulenti finanziari più responsabili consigliano di non impegnare più del 2-3% del proprio portafoglio in criptovalute.
Come in tutti i mercati finanziari, l’altra faccia della medaglia è che uno speculatore particolarmente abile o fortunato può guadagnare altrettanto in meno di 24 ore (comprando ai minimi e vendendo ai massimi). Per esempio, se, per pura ipotesi, il 19 maggio Musk avesse speculato al ribasso prima di prendersela con le criptovalute, avrebbe aumentato di un terzo il valore dei suoi investimenti in BTC e di poco meno della metà quelli in ETH. Ma naturalmente queste sono solo cattivi pensieri, altrimenti la SEC sarebbe già intervenuta.
Tanto per dare un metro di paragone per giudicare la volatilità delle criptovalute, chi, negli ultimi 365 giorni, ha puntato su un bene rifugio tradizionale come l’oro ha rischiato di perdere (o di guadagnare) più del 3% (ma mai più del 6,75) in una sola seduta in appena 6 occasioni. In compenso, anche se è riuscito a comprare al minimo e a vendere al massimo, in un anno ha guadagnato meno del 25% della cifra iniziale, contro il 602% del bitcoin e il 1770% dell’ether. Le 5 sedute più sfortunate sull’oro avrebbero eroso tutto il guadagno potenziale di un anno, mentre non sarebbero bastate tutte le peggiori giornate del bitcoin e dell’ether (quelle in cui oscillano di oltre il 10% in 24 ore) per perdere tutto. Quindi, se non si ha l’esigenza di dover liquidare tutto in poche ore, il gioco d’azzardo sulle criptovalute vale più di una candela d’oro.
Le criptovalute spiegate a un bambino
Al di là degli aspetti tecnici, le monete virtuali non differiscono troppo da quelle reali, se non per il fatto che sono emesse e garantite da un algoritmo invece che da uno Stato, da una istituzione sovranazionale (come i diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale o l’euro), dalla cassa di un casinò o di un villaggio turistico.
Fino a poco tempo fa le criptovalute non erano ancora accettate per pagare le tasse, ma in Svizzera si sono adeguati da parecchi anni e molti paesi li stanno seguendo. Da noi non sono ancora considerate monete a corso legale (“fiat money”), ma hanno già attirato le attenzioni del fisco.
L’intuizione geniale alla base delle criptovalute è il fatto che non conta chi e come emette una moneta, ma le transazioni in cui essa è utilizzata. Probabilmente lo scrittore Jorge Luis Borges l’aveva capito già una settantina di anni fa e infatti nel racconto “Lo Zahir” scriveva che “nulla è meno materiale del denaro, giacché qualsiasi moneta (una moneta da venti centesimi, ad esempio) è, a rigore, un repertorio di futuri possibili. Il denaro è un ente astratto […], è tempo futuro. Può essere un pomeriggio in campagna, può essere musica di Brahms, può essere carte geografiche, può essere giuoco di scacchi, può essere caffè, può essere le parole di Epitteto, che insegnano il disprezzo dell’oro; è un Proteo più versatile di quello dell’isola Pharos.”[2] Solo nel 2009 qualcuno che si nasconde dietro lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto, forse inconsapevolmente, ha messo in pratica questa illuminazione poetica immettendo sul mercato il Bitcoin.
Il Bitcoin, come tutte le altre criptovalute, è generato da un algoritmo, che garantisce la sicurezza delle transazioni e l’ammontare della valuta sul mercato al posto dello stato. Sembra la materializzazione di un sogno degli ultraliberisti come il premio Nobel Friedrich August von Hayek, che nel suo volume “The Denationalization of Money” del 1976,[3] scriveva che “le monete nazionali non sono inevitabili o desiderabili” e propugnava quindi la fine del “monopolio monetario” degli stati e la libertà di emissione da parte di istituti pubblici e privati, con una competizione tra banche di emissione nell’offrire la moneta migliore. Si tratta di una visione forse troppo estrema che avrebbe impedito, ad esempio, di salvare l’economia durante le ultime due crisi mondiali tramite il quantitative easing messo in atto dalle banche centrali. In ogni caso le criptovalute si avvicinano abbastanza ai desideri di Hayek.
In linea di principio, una unità di criptovaluta non è altro che una sequenza di bit accettata come mezzo di pagamento dagli utenti all’interno di un circuito di transazioni. Quindi non differisce troppo dalle conchiglie usate da certe tribù o dalle fiches usate all’interno di un casinò. Ogni sequenza deve essere la soluzione di un problema matematico estremamente complesso che si può risolvere solo a tentativi con sforzi esorbitanti. Tipicamente si tratta di problemi basati sulla ricerca di numeri primi, la cui sequenza non segue apparentemente alcuna regolarità, nonostante gli sforzi delle migliori menti matematiche degli ultimi secoli. Ogni volta che qualcuno (un cosiddetto “miner”) scopre una nuova sequenza fortunata guadagna un premio (nella stessa criptovaluta) e il diritto a riscuotere delle commissioni sull’uso della nuova unità. Il problema da risolvere può ammettere solo un numero finito di soluzioni, in modo che la quantità massima di ogni criptovaluta in circolazione sia predeterminata per sempre, oppure le soluzioni possono aumentare nel tempo ad un ritmo prefissato.
Una volta che l’algoritmo ha riconosciuto come valida una nuova unità di moneta gli utenti cominciano a scambiarsela tra loro con transazioni certificate da un archivio centrale o, più spesso, da una rete di archivi decentrati noto come blockchain. Questa rete è praticamente inattaccabile perché bisognerebbe falsificare tutti i numerosissimi registri sparsi in mezzo mondo per appropriarsi indebitamente delle criptovalute. Tuttavia, anche per questi asset basta un po’ di moral suasion, eventualmente rafforzata da un’arma, per convincere chiunque a consegnarli nelle mani di un rapinatore o un truffatore.
La tracciabilità e la sicurezzza delle transazioni trova comunque un limite negli exchange, ovvero nei punti di contatto tra criptovalute e monete tradizionali. La maggior parte di essi sono cambiavalute all’antica, come quelli rappresentati nei quadri fiamminghi, che non trattano blocchi “sospetti” e collaborano con le autorità di polizia di tutto il mondo. Ma ve ne sono parecchi che operano in un’area grigia, anche grazie alla domiciliazione in paradisi normativi (e non solo fiscali) e consentono anche operazioni di riciclaggio di asset tradizionali. Infine ci sono i veri e propri pirati, che fanno affari con le organizzazioni criminali e qualche volta le fregano pure, come è avvenuto recentemente per l’exchange Thodex in Turchia, i cui responsabili sono spariti nel nulla in compagnia di almeno due miliardi di dollari. Anche da questo punto di vista, le criptovalute non differiscono troppo da quelle tradizionali. Perché forse gli algoritmi sonno inviolabili, ma gli umani no.
- I dati sono aggiornati al 3/6/2021 e sono passibili di variazioni anche significative. ↑