La stagione dell’emergenza sanitaria è contrassegnata, dal punto di vista istituzionale, da un paradosso. L’azione di contenimento e contrasto richiede rapidità nelle azioni e adempimenti amministrativi ridotti al minimo e quindi poche e chiare regole di funzionamento degli apparati. La novità assoluta e la gravità dell’emergenza hanno però innescato una produzione normativa torrenziale e mostrato i limiti di un sistema amministrativo già segnato da arretratezze e mali cronici.
Normativa che rappresenta una forma di “amministrazione per legge” che riduce di molto lo spazio per la fase esecutiva che spetterebbe alla discrezionalità e responsabilità degli apparati amministrativi. Nonostante ciò è unanime l’invocazione riassunta nel facile slogan “burocrazia zero”. Prospettiva non solo poco credibile in un contesto contrassegnato dall’indispensabile incremento della presenza nella società dello Stato e del sostegno pubblico all’economia. Ma anche, se vogliamo ricordare il pensiero antico di Piero Gobetti, liberale vissuto ai primi del ‘900, neppure desiderabile, se si considera che la burocrazia opera come limite al potere politico e quindi anche come garanzia del cittadino. Usando le sue parole: “dovremo limitare e migliorare la burocrazia ma non possiamo abolirla”.
Vasto programma, che va articolato su misure a lungo termine ed interventi immediati. In prospettiva necessita certamente una più compiuta disciplina, in Costituzione, dell’amministrazione pubblica e dei suoi limiti nei confronti delle libertà dei cittadini e delle imprese. È noto che nel testo attuale le poche e scarne disposizioni, a partire dall’art. 97, non mettono al centro il cittadino e la garanzia che gli si offre è limitata alla riserva di legge e al vincolo all’imparzialità e buon andamento. Clausole troppo elastiche per arginare le patologie che conosciamo.
Venendo ad una strategia sul breve/medio periodo si devono individuare rimedi per tutti i tre principali ambiti della problematica delle PA:
- quello dell’organizzazione,
- quello dell’esercizio delle funzioni
- e quello, fondamentale, dei mezzi (principalmente rappresentati dal personale e dalla tecnologia).
È imprescindibile che la progettazione della riforma amministrativa consideri in modo unitario questi tre segmenti, pena l’inefficacia delle misure che si volessero adottare con un approccio parziale riservato a solo uno di essi.
Organizzazione
Per l’organizzazione è presto detto il da farsi: una robusta cura dimagrante che riduca, accorpandoli, il maggior numero possibile di apparati. Quello che si è timidamente iniziato a fare qualche tempo fa portando il Corpo forestale dello Stato all’interno dell’Arma dei Carabinieri, va fatto a tutto campo per eliminare, a livello centrale, un certo numero di ministeri, di autorità indipendenti, di enti autonomi, di società partecipate e via elencando. Anche nei rami bassi del sistema pubblico va invertita la tendenza, che prosegue da decenni, di portare fuori dai Comuni, dalle Province e dalle Regioni, funzioni ed attività, creando strutture esterne di ogni tipo. Va disboscata la foresta di corpi tecnici che si collocano al di fuori del perimetro degli enti i cui amministratori vengono eletti e quindi hanno una legittimazione democratica. In questo modo sarà anche possibile allocare le competenze in modo esclusivo al livello ottimale e adeguato, ad esempio per il governo del territorio, dell’ambiente e della salute pubblica, evitando quei processi decisionali simili a un labirinto in cui si procede solo con l’assenso di decine di soggetti.
L’esercizio delle funzioni amministrative
Per quanto riguarda poi l’esercizio delle funzioni amministrative, è indispensabile riformare la legge generale sul procedimento amministrativo che compie tra poco trent’anni (la n. 241 del 1990). Abbiamo bisogno di un unico codice amministrativo vincolante per qualsiasi tipo di ente e di ufficio pubblico, eliminando la possibilità che ognuno di essi possa farsi le regole da sé. Il modello operativo deve essere quello di un rapido e leale confronto dialettico tra tutti gli interessati in modo che si condividano le informazioni utili e si manifestino in modo aperto e trasparente tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti, in modo che la decisione finale rappresenti una buona sintesi, che soddisfi i primi con il minimo sacrificio dei secondi, come la scienza del diritto amministrativo insegna inascoltata da quasi due secoli. In questo modo si potranno avere decisioni maggiormente condivise e più resistenti ad eventuali contenziosi.
Anche i controlli, il cui sistema va totalmente ripensato, potranno operare meglio e si potrà anche alleggerire il regime delle ora eccessive responsabilità (penali, civili e amministrative), che spesso inducono il pubblico funzionario a non decidere o ad assumere non la migliore decisione possibile ma quella che comporta per lui il minor rischio di conseguenze.
La tecnologia e il personale
Veniamo ora al punto più delicato: quello dei mezzi, cioè della tecnologia e del personale. Della pubblica amministrazione informatizzata si parla da oltre trent’anni. Piani e investimenti non sono mancati ma è unanime l’insoddisfazione per i risultati. I più accreditati studiosi hanno individuato la causa di questo ritardo nell’informatizzazione “tal quale” di procedure ed apparati, senza una riprogettazione organizzativa che presupponga la disponibilità della tecnologia e sia pensata in funzione di ottimizzarne l’impiego. Il che richiede una cultura informatica interna che va costruita, per non essere sempre al traino dell’offerta di prodotti e sistemi pensati per altri contesti. Altro pilastro dovrà essere quello dell’accorpamento delle banche dati pubbliche e dalla loro piena interoperabilità, sempre promessa e mai ottenuta fino in fondo.
Non si può chiudere questa rassegna dei capitoli della riforma amministrativa senza indicare almeno le parole chiave di una politica del pubblico impiego: formazione, valutazione, premialità. Non si può aspettare che i nativi digitali arrivino a ricoprire in ogni ente pubblico le posizioni di vertice. Vanno fatti investimenti importanti nella formazione, soprattutto nell’alta formazione ed introdotti meccanismi che riportino almeno un poco di meritocrazia nell’assegnazione degli incarichi e nell’avanzamento nelle carriere.
Un cenno finale va fatto alla necessità che cambi anche l’approccio della società civile, nei confronti degli apparati pubblici. Non possiamo accorgerci che abbiamo anche ottimi servitori della cosa pubblica solo quando succede un’emergenza e vediamo all’opera medici ed infermieri negli ospedali. Dobbiamo e possiamo pretendere un adeguato livello di gestione della cosa pubblica facendo per primi la nostra parte, cioè interagendo con correttezza e non cercando favori o vie oblique. Spesso infatti lo Stato non ci restituisce altro che quello che riceve da noi.