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Capitanio (Lega): “Italia ignorante digitale, la svolta richiede un ministero ad hoc”

Analfabetismo diffuso, mancanza di competenze e di un ministero ad hoc. La corsa verso la digitalizzazione del Paese è una sfida soprattutto culturale: manca la consapevolezza del momento storico che stiamo attraversando. Servirebbe un ministero ad hoc, o almeno una Commissione, come chiede l’intergruppo Innovazione

Pubblicato il 10 Lug 2019

Massimiliano Capitanio

Commissario Agcom

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L’Italia non è ancora un paese digitale, anzi, è come se avesse distolto lo sguardo dalla propria Agenda digitale e dalla Strategia Europa 2020 che pone, tra i suoi obiettivi, il miglioramento dell’alfabetizzazione digitale e delle competenze digitali anche per ridurre l’esclusione sociale.

Viene spontaneo a questo punto, chiedersi se è possibile raggiungere l’agognata trasformazione digitale senza un ministero ad hoc o almeno una Commissione dedicata alle infrastrutture e all’innovazione digitale, come sta chiedendo l’Intergruppo innovazione con un apposito progetto di legge.

Una sfida industriale, economica e culturale

Quel che è certo è che un Paese come l’Italia  non può più permettersi un tale stallo, che penalizza la crescita economica e ipoteca il futuro dei nostri giovani.

Non possiamo più permetterci di restare quasi fanalino di coda, al 24esimo posto fra i 28 Stati Ue nell’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi 2019) a causa della zavorra della connettività e dei servizi pubblici digitali.

La classifica riflette una sorta di analfabetismo digitale diffuso che, nonostante best practice locali ed eccellenze mondiali (l’Italia è fra i Paesi che ospiteranno, a Bologna, un computer di classe pre-exascale grazie a un Consorzio congiunto con la Slovenia guidato dal Consorzio Interuniversitario CINECA, insieme all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati), fotografa una certa timidezza nello scommettere sul digitale.

La scuola non prepara studenti digitali, poco più di 4,5 milioni di italiani hanno una identità digitale Spid e le Pubbliche Amministrazioni faticano a trasformare il Municipio in sportelli telematici accessibili da casa 24 ore su 24 con modalità semplici e soprattutto sicure, vista la delicatezza dei dati che transitano dalle nostre CIE e CNS. Se consideriamo che in Italia ci sono oltre 5.000 Comuni sotto i 5.000 abitanti (quasi il 70% del numero totale dei Comuni italiani) è chiaro il ruolo che gli enti locali dovrebbero giocare nell’alfabetizzazione dei cittadini.

La corsa verso la digitalizzazione del Paese, senza trascurare l’affascinante rivoluzione del 5G, è certamente una sfida industriale ed economica: nel 2018 il mercato ICT italiano ha raggiunto i 30 miliardi di euro, (+0,7% rispetto al 2017) e il comparto IT ha trainato la crescita tecnologica con un +1,6% nel 2018, con un raddoppio previsto per il 2019 e una crescita degli investimenti in software del +5%.

Ma la trasformazione digitale del Paese è soprattutto una questione culturale. “Gli ostacoli sono quelle cose spaventose che vedi quando togli gli occhi dalla meta”, diceva Henry Ford.

Ma è possibile arrivare alla meta senza un ministero esclusivamente dedicato alle infrastrutture e alle competenze digitali? È in linea con un Paese votato all’innovazione una Commissione parlamentare come la IX della Camera a cui appartengo che si occupa indistintamente di Trasporti, Poste e Telecomunicazioni, compattando temi sterminati come trasporto aereo, infrastrutture, alta velocità, sistemi portuali, big data e 5G, senza contenere nella propria denominazione nemmeno un accenno alla parola digitale? La risposta è no.

Ecco perché l’intergruppo Innovazione sta lavorando almeno per la costituzione di una Commissione dedicata alle Infrastrutture e alle innovazioni digitali, riscrivendo le competenze dei quattordici attuali parlamentini le cui materie di lavoro sono immutate dal 1996 (ventitré anni!): un progetto di legge, già sottoscritto trasversalmente da 160 deputati, è stato depositato alla Camera e uno analogo seguirà il proprio iter al Senato.

Un passaggio fondamentale, già attuabile dalla XIX legislatura, ma non sufficiente. Non sufficiente perché manca la consapevolezza del momento storico che stiamo attraversando. Abbiamo per anni raccontato che i nostri ragazzi sono “nativi digitali” solo per il fatto che dai 3 anni sanno “smanettare” lo smartphone, chattare, instagrammare, realizzare video. In primis mancano educazione alle regole e capacità di comprendere le differenze tra realtà e virtualità.

L’educazione alla cittadinanza digitale

L’inconsistenza di questa presunta ma inverosimile “natività digitale” è raccontata quotidianamente da terribili fatti di cronaca: bullismo, cyberbullismo, stalking, revenge porn, ghosting, orbiting, induzione al suicidio, autolesionismo sono reati o pratiche patologiche che dimostrano come potenzialità, rischi e doveri di una società digitale sono sconosciuti e nemmeno insegnati.

Con il progetto di legge sull’educazione civica obbligatoria e curricolare, approvato all’unanimità alla Camera e ora al vaglio definitivo del Senato proprio in questi giorni, dedichiamo l’intero articolo 5 all’educazione alla cittadinanza digitale, un momento in cui affrontare il tema delle regole e comprendere la delicatezza di alcuni aspetti, a partire dalla tutela dei dati e dal rispetto delle persone. In questo può e deve avere un ruolo fondamentale il servizio televisivo pubblico: in Commissione Vigilanza i vertici Rai sono stati più volte formalmente sollecitati a promuovere la cultura digitale attraverso approfondimenti sui canali dedicati ai giovani e nelle rubriche economiche.

Il nodo della formazione per il lavoro digitale

E qui arriviamo a un altro nodo cruciale: vincere la sfida culturale per dare un futuro ai nostri ragazzi. Già da diversi anni viene lanciato l’allarme sulla carenza di periti e ingegneri informatici, elettronici, matematici. Le aziende boccheggiano alla disperata ricerca di ragazzi (la nostra disoccupazione giovanile è leggermente in calo, 30,5% a maggio , ma pur sempre drammatica) e siamo arrivati al paradosso in occasione del Manufacturing Summit 2019, organizzato a giugno a Milano da 24Ore Business School: il Governo del Canada, che ha fatto forti investimenti statali in questa direzione, ha invitato le aziende italiane a investire da loro, proprio per l’ampia disponibilità di operai 4.0.

Allora ben vengano programmi con P-Tech, il progetto che a Taranto ha coinvolto cinque istituti superiori, Politecnico di Bari e Ibm per accompagnare i ragazzi dalla scuola secondaria al mondo del lavoro attraverso un percorso orientato a competenze digitali, tecnologiche e innovative. Quando questi esperimenti saranno divenuti la normalità la svolta culturale sarà in parte compiuta. Il futuro è ieri, non c’è un minuto da perdere.

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