Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha messo fine in anticipo all’esperimento del cashback con motivazioni riprese da studi pubblicati almeno un anno fa. Bastava dare un’occhiata ai dati dell’indagine sulle famiglie e a quella sui mezzi di pagamento di Bankitalia, tutti disponibili liberamente su internet, per rendersi conto che il cashback non avrebbe stimolato l’uso dei mezzi di pagamento elettronici e avrebbe trasferito risorse a favore dei più ricchi.
Perché i dati da tempo bocciavano il cashback
In particolare, i dati mostravano chiaramente già prima dell’approvazione del provvedimento, che gli unici a non utilizzare troppo le carte di credito sono i disoccupati (solo il 67,3% ha una carta, probabilmente quella del Reddito di Cittadinanza o la Social Card di Berlusconi), gli over 65 (64.3%), chi abita nei piccoli centri, sotto i 5000 abitanti, (72.3%, se non altro perché ci sono pochi POS) e nel Sud e Isole (68.9%). In media, c’era già almeno una carta in 4 famiglie su 5, ma questa quota scende drasticamente per quelle meno abbienti (è del 58,1% tra quelle del primo quinto più povero della popolazione, contro il 95,7% tra quelli del quinto più ricco). Sempre i dati di Bankitalia mostravano che il 73% delle famiglie già spendeva normalmente più dei limiti previsti dal cashback (3.000 euro a semestre) quindi lo stimolo ad utilizzare di più le carte era debolissimo anche tra chi già usava poco il contante.
Visto che non si poteva ottenere il cashback senza avere almeno una carta di credito o un bancomat (oppure uno dei wallet elettronici ancora poco diffusi perfino tra i NERD), era facile prevedere a chi sarebbero arrivati i rimborsi. Ai “ricchi” dice Draghi.
Perché è stato un bene sospendere il cashback
Se poi è vero che i ricchi spendono per i consumi una quota relativamente bassa del proprio reddito, anche la spinta sui consumi prodotta dal cashback è stata modesta. Un vecchio proverbio padano recita: “Sòld fa sòld e pög fa pög”, dove i “pög” sono i pidocchi, e infatti così è andata anche col cashback. Insomma da anni era chiaro che l’operazione cashback non avrebbe prodotto grandi risultati e avrebbe trasferito risorse dalla massa dei contribuenti verso pochi privilegiati, con effetti modesti sull’evasione e nulli sui consumi.
I risultati di questo esperimento sono anche meno incoraggianti delle premesse. PagoPA, che è l’agenzia a cui è stata affidata la gestione dell’operazione tramite l’app tutto fare IO, ha diffuso i dati sul numero degli aderenti all’iniziativa e sulle transazioni.
Da prima di Natale a fine giugno sono si sono iscritti all’iniziativa quasi 9 milioni di utenti, per un complesso di 16,5 milioni di strumenti, ma solo 7,9 hanno effettuato transazioni valide.
Ora gli ultimi dati di Bankitalia, relativi a fine 2019, mostrano che le carte e i bancomat posseduti dai privati sono poco più di 100 milioni, e che le transazioni effettuate ogni anno ammontano a 71.2 miliardi di euro.
Pochissimi benestanti favoriti dal cashback
Quindi l’operazione cashback ha interessato al massimo un utente potenziale su 6 (poco più di uno su 7 se si considerano i soli iscritti “attivi”). Poiché la spesa media annuale per ogni carta nel 2019 è stata di 7.120 euro (corrispondenti a 4.800 euro negli 8 mesi dell’esperimento cashback), si può calcolare che anche un (improbabile) raddoppio dell’attività degli aderenti all’iniziativa (compresi quelli che non hanno effettuato transazioni valide) avrebbe prodotto un ammontare di transazioni aggiuntive pari a circa 790 milioni di euro (ossia l’11,1% in più l’anno). Se tutti questi soldi fossero serviti a “redimere” gli evasori, i maggiori introiti IVA sarebbero stati pari a circa 115 milioni di euro e quelli per le altre imposte un’altra cinquantina. In sintesi, lo stato avrebbe stanziato 2,4 miliardi l’anno per il cashback per incassare meno di 200 milioni anche in uno scenario eccezionalmente favorevole e altrettanto improbabile. Anche l’impatto sui consumi delle famiglie e sul Pil sarebbe stato altrettanto modesto (200 milioni sono meno dello 0,03% dei consumi nazionali al netto dei fitti imputati perfino in un anno horribilis come il 2020).
4,7 miliardi sprecati
Guardando a queste cifre stupisce solo che l’esperimento non sia stato interrotto prima, dirottando i 4,7 miliardi totali stanziati per questa operazione su voci molto più importanti, come la sanità e gli ammortizzatori sociali. Se la stessa cifra fosse stata utilizzata per fornire gratuitamente un POS a tutti i 5,2 milioni di lavoratori autonomi che ci sono in Italia, ognuno avrebbe avuto a disposizione un apparato da circa 900 euro (presumibilmente in titanio e firmato da qualche stilista).
Altra follia: lotteria degli scontrini
Un discorso simile vale anche per un altro provvedimento antievasione, la lotteria degli scontrini, di cui si parlava già nel 2014. Si tratta di una misura apparentemente suggestiva, sperimentata in paesi non proprio di avanguardia come Cina, Brasile, Argentina, Colombia, Puerto Rico, Taiwan e, in Europa, anche in Albania, Grecia, Portogallo e Slovacchia. In quest’ultimo paese uno dei premi è la partecipazione a un programma televisivo simile a “Ok il prezzo è giusto!”.
Dopo un primo avvio molto positivo, quasi tutti questi paesi sono poi tornati indietro visti i risultati deludenti. Quindi è presumibile che anche la lotteria seguirà la sorte del cashbak.
Il punto cruciale è che la lotteria funziona se il premio atteso è dell’ordine di grandezza dello “sconto” proposto da chi preferisce nascondersi al fisco. Altrimenti qualsiasi cittadino mediamente disonesto preferirà pagare in nero con un vantaggio certo piuttosto che in chiaro in cambio di un premio solo eventuale. D’altra parte, un venditore con una normale inclinazione ad evadere le tasse, si convincerà a mettere mano al misuratore fiscale solo se il premio che gli spetta supera l’indebito guadagno in nero.
Anche ipotizzando che lo “sconto” sia pari solo all’aliquota IVA, come già accade in molte transazioni irregolari, la lotteria fiscale dovrebbe dunque prevedere, in media, un premio di circa un euro ogni sei euro di spesa certificata. Nel caso italiano, invece, la lotteria mette in palio ogni settimana 15 premi da 25mila euro ciascuno per i consumatori e altrettanti da 5mila euro ciascuno per gli esercenti; 10 premi mensili da 100.000 euro ogni mese (più 20.000 per chi vende); un superpremio annuale da 5 milioni di euro per chi compra e di un milione per chi vende. Da questo mese sono previsti anche altri 25 premi ogni settimana da 10.000 euro per chi compra e di 2.000 per chi vende; 5 maxi premi ad agosto e dicembre di 150.000 per l’acquirente e di 30.000 per il venditore.
Visto che nel 2019, prima della pandemia, la spesa effettiva per consumi settimanale ammontava mediamente a circa 15,4 miliardi, si capisce subito che questi premi non attirerebbero neanche chi è affetto da ludopatia grave. E infatti il MEF informa che hanno richiesto il codice per partecipare alla lotteria solo 4,1 milioni di utenti, poco più della metà degli aderenti al cashback. A questo insuccesso ha indubbiamente contribuito una procedura macchinosa che servirebbe a scongiurare i rischi per la privacy, ma che forse poteva essere semplificata prevedendo la retrocessione agli acquirenti di una frazione delle somme pagate mediante carte di credito e wallet elettronici, come accade già in molti casi.
E allora cosa fare contro l’evasione?
E allora come combattere l’evasione, favorire la tracciabilità?
- Potenziare il credito d’imposta POS
- Dare incentivi per un passaggio – che va reso gradualmente obbligatorio – alla fatturazione elettronica. Le Commissioni Finanze di Camera e Senato hanno approvato il 30 giugno un documento di indagine conoscitiva, indirizzata al Governo per una legge delega di riforma fiscale per estendere l’obbligo anche ai forfettari. Non basta però senza incentivi – che ora non ci sono – a chi passa alla fattura elettronica se di categorie “deboli”.
Database, AI e privacy
In fine e in generale, favorire la digitalizzazione della macchina statale generale, sfruttando l’opportunità del PNRR, integrando le base dati. Lo si legge anche nell’indagine conoscitiva di Camera e Senato.
Si dice che bisogna spingere su digitalizzazione e in parallelo riduzione adempimenti per imprese, professionisti, intermediari; informatizzare e semplificare gli adempimenti, anche con interoperabilità banche dati, nel rispetto della privacy; superare “le residue forme di attività di controllo basate sulla ricostruzione presuntiva del reddito o ricavi” se l’Agenzia potrebbe già con i dati disponibile essere più precisa. Il tutto verso quello che – si legge – dovrebbe essere un nuovo patto tra Fisco e contribuente. Serve una “rivoluzione manageriale, per passare da un approccio formale a una gestione del processo produttivo basato su efficienza ed efficacia.
Un cambio culturale importante è necessario, insomma; lo stesso che serve a tutta la PA italiana.
Mentre ora – aggiungiamo noi – l’Agenzia delle Entrate continua a chiedere – violando il Codice Amministrazione Elettronica – dati, scontrini, prove di pagamento che dovrebbe già avere.
Ben vengano gli esperimenti per l’uso dell’intelligenza artificiale – come da progetto europeo in corso, dell’Agenzia, da marzo per scovare gli evasori. Ma è inutile spingersi avanti con gli algoritmi se non si è prima sviluppata una strategia per una corretta gestione e controllo di dati. Diversi studi (da ultimo Deloitte) dimostrano che nelle aziende l’AI è inutile senza una data strategy.
Lo Stato impari la lezione: servono prassi organizzative snelle, integrazioni, semplificazioni e interoperabilità tecniche; impegno politico per superare silos interni ed esterni alle organizzazioni. Soprattutto si eviti di scaricare la responsabilità di inefficienze sulla privacy, se non si riescono a utilizzare gli strumenti: come fatto di recente dal direttore dell’Agenzia.
La privacy è figlia di quella stessa cultura, moderna, attenta all’importanza dei dati, di cui abbiamo bisogno per valorizzarli, per il beneficio collettivo. Attaccare la privacy è la strada maestra per un futuro in cui non si avrà né privacy né utilizzo intelligente dei dati.
Contro l’evasione fiscale e per qualsiasi altro fine pubblico e privato.
PA, Mochi: “Senza interoperabilità non c’è semplificazione. Ecco dove agire”
In conclusione
Anche per questo punto il cashback ci serva da lezione. Serve una politica basata su dati (evidence-based), soprattutto prima di investire 4,7 miliardi di euro in piena pandemia. Ora abbiamo sbagliato. Si colga l’opportunità per spingere verso una transizione digitale sensata, del Paese.
Ha collaborato un economista che preferisce firmarsi con lo pseudonimo Maigret