L’approvazione dell’emendamento all’art.117 della Costituzione, di fatto un risultato collettivo e non scontato da parte dei parlamentari dell’intergruppo innovazione tecnologica, non scontato al punto da aver avuto inizialmente un parere negativo da parte del governo, poi rettificato, ha fatto certamente esultare tutti per il punto di principio: non si può parlare di coordinamento Ict dello Stato restringendo l’ambito soltanto ai dati, ma bisogna necessariamente ampliarlo ai processi e alle infrastrutture e alle piattaforme correlate. Come motivava Stefano Quintarelli nel suo discorso alla Camera, non si può parlare con il linguaggio del secolo scorso, per una Costituzione che altrimenti rischia di nascere già vecchia “una competenza centrale dello Stato nel coordinamento informatico solamente dei dati, nasce in un’epoca, di fatto, pre-internet, quando ci si scambiava i dati con stampe, nastri e dischi”.
L’approvazione dell’emendamento, nel merito stretto, pone inoltre una questione sulla competenza statale e/o regionale sul coordinamento sulle iniziative Ict, e qui c’è chi ha visto una volontà politica di andare ad una logica di centralizzazione non solo di governance, ma anche operativa, con la (ri)nascita di un polo informatico pubblico, con un cambiamento radicale della situazione attuale di autonomia regionale con il supporto delle in-house Ict.
Nulla di questo è nell’emendamento approvato, che tratta appunto di “coordinamento”, quindi di indirizzi e non di attuazione, ma il dubbio inizia a serpeggiare. E per questo credo sia utile approfondire il tema per individuare eventuali percorsi da suggerire, partendo da una riflessione preliminare: la pratica di pendolare tra gli opposti (qui dal decentramento massimo alla massima centralizzazione) è utile e significativa quando si vogliono produrre modifiche di assetto e di equilibrio restando sullo stesso piano di funzionamento, mantenendo sostanzialmente la stessa logica. Questa strategia “del pendolo” è però del tutto inadeguata laddove si vogliono produrre cambiamenti profondi e si manifesta chiaramente come un approccio conservatore che tende, di fatto, a mantenere lo status quo. E poiché ci sono più elementi che fanno propendere verso una necessità di trasformare in modo radicale la governance sull’Ict nazionale, l’approccio deve essere diverso, innovativo e dirompente.
La governance dell’Ict tra centro e territori
La governance “operativa” sull’Ict soffre di una situazione in cui l’AgID, assume già normativamente un ruolo di “coordinamento informatico dell’amministrazione centrale, regionale e locale“, senza però che siano definite le modalità che possono permettere all’Agenzia di condurre questo coordinamento in modo sostanziale e anche verso i veri bracci operativi delle Regioni e delle Amministrazioni: le società in-house.
Non solo, ma la stessa dimensione ridotta dell’Agenzia, rispetto ai compiti definiti, può essere motivata soltanto se questo raccordo con il territorio non è soltanto a una via, di coordinamento e indirizzo, ma se anche dai territori vengono servizi per il supporto sulle iniziative centrali. L’alternativa, non percorribile in modo efficace, è che sia l’Agenzia, da sola, a fornire supporto e a esercitare controlli su tutte le migliaia di amministrazioni pubbliche, con una logica di rapporto “uno a molti” che ha poche speranze di produrre risultati significativi.
Il ruolo delle in-house nei territori
Tra l’altro la missione che le in-house avevano (sostanzialmente, essere il braccio operativo delle amministrazioni al punto da poter realizzare infrastrutture e servizi) è stata messa in discussione perché lesiva del mercato, e tale anche da prefigurare una posizione di privilegio monopolista che non poteva prevedere anche la partecipazione a gare e la concorrenza nei confronti del privato.
D’altra parte, la spinta manifestata da più parti (politiche, industriali) di restringere il campo d’azione delle in-house alla sola definizione dei requisiti Ict e al coordinamento degli sviluppi e della manutenzione è, oggi, in chiara distonia rispetto alla dimensione e alle competenze che si sono intanto formate.
Le società in-house rappresentano una risorsa e una ricchezza in termini di esperienze e di competenze, ma è anche vero che la condizione di società pubblica monopolista ha certamente influenzato la crescita dimensionale. E, d’altra parte, non c’è dubbio che la situazione nelle regioni e nelle amministrazioni è molto differenziata, in termini di numero oltre di efficacia delle in-house, con la presenza di realtà di eccellenza come ad esempio Lepida (comunale) o Informatica Trentina (regionale).
Secondo i dati di Netics di settembre 2014 il “costo” delle in-house è di circa 800 milioni l’anno, 720 in capo alle 14 maggiori società, e il resto relativo a circa quaranta altre in-house. Le 14 maggiori avevano a fine 2013 4.754 addetti. Con poco coordinamento tra loro, se oggi abbiamo 16 piattaforme diverse per il fascicolo sanitario elettronico e 10 per il pagamento del bollo auto.
Dai problemi ad un modello diverso
Ridondanza, in alcuni casi inefficienza, deformazione del mercato a causa della posizione monopolista, tendenza a richiedere al privato prestazioni misurate sul costo e non sulla qualità: questi i punti specifici di carenza da affrontare, e che però sono da considerare insieme al carattere complessivo e alla governance dell’Ict in Italia, dove rimane indispensabile una presenza territoriale coordinata con una regia nazionale, e dove le competenze e le esperienze sviluppate sul territorio diventano la chiave per uno sviluppo pragmatico e rapido.
In questo quadro è necessario cambiare del tutto paradigma, passare ad una trasformazione profonda di cui alcuni elementi sono emersi, ma non ancora in integrazione tra loro. Ecco un’ipotesi:
- Cambio di missione. È ormai sempre più evidente che le società Ict In-house debbano avere una missione di partner strategico e consulente delle amministrazioni, oltre di governo e di project e service management. Alcune si sono già spostate su questo versante abbandonando gradualmente la parte più dedicata alla realizzazione e all’erogazione di servizi, a favore di un mercato a cui devono essere richieste competenze sempre più qualificate e prestazioni sempre più elevate. In questo nuovo paradigma, fattori competitivi sul mercato sono la qualità e la rapidità, poiché il quadro dei costi e delle risorse necessarie può essere predeterminato dal committente pubblico ed essere in minima parte oggetto di negoziazione e concorrenza. Per realizzare questo cambiamento è necessario favorire le aggregazioni che sono già in atto in diverse regioni (vedi Umbria), mentre dall’altra parte bisogna scorporare e portare sul mercato, privatizzandole, le parti strettamente operative;
- Cambio di forma e omogeneizzazione sul territorio. Indirizzando le in-house verso compiti sempre più di governo tecnico, e non più di realizzazione, la forma più adeguata è probabilmente quella delle Agenzie Regionali. Questa scelta avrebbe alcune conseguenze immediate: focalizzerebbe molto di più le organizzazioni in-house verso la qualità del servizio, le avvicinerebbe ancora di più alle amministrazioni, spingerebbe verso una omogeneizzazione territoriale, mettendo a fattor comune realtà regionali e comunali, ma anche spingendo ad uno sviluppo virtuoso le regioni dove non sono presenti realtà che consentono di indirizzare strategicamente le politiche dell’innovazione;
- Cambio di funzionamento, per un modello a rete. Il modello generale deve essere però quello in cui le Agenzie regionali si muovono in rete come un organismo unico, coordinato dall’Agenzia per l’Italia Digitale. Come è stato suggerito da più parti, questo potrebbe portare anche a specializzazioni tematiche territoriali, sulla base delle esperienze già realizzate o delle opportunità che vengono dalle specificità locali. Con il coordinamento dell’AgID e alla ricerca continua del bilanciamento tra servizi centralizzati in cloud e bisogni specifici di un territorio, tra infrastrutturazione pubblica e quella sviluppata dagli operatori privati, la rete delle Agenzie Regionali potrebbe virtuosamente costituire un modello in cui si realizza lì dove si manifestano prima le esigenze, sapendo che ciò che si realizza è patrimonio comune. Il riuso, quindi, non come opportunità accessoria, ma come elemento costituente del modello, e il cloud come strumento fondamentale di semplificazione e ottimizzazione.
Il cambiamento è profondo e per nulla semplice, attraversando anche temi normativi e del mercato del lavoro, oltre che di politica industriale, ma credo che solo operando questa trasformazione, mutando paradigma, verso un modello a rete, possiamo realizzare quel salto qualitativo e di velocità sul digitale di cui l’Italia ha bisogno.