Più o meno un anno fa (per la precisione, l’8 luglio 2014) veniva annunciato il Patto di Sanità Digitale. E se tutto va bene, lo avremo in autunno se consideriamo che il documento è stato appena trasmesso alla Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e Province Autonome e che il passaggio finale lo dovrà fare la Conferenza Stato-Regioni.
Sia ben chiaro: meglio tardi che mai, e – soprattutto – meglio un buon Patto dopo un anno e mezzo che un cattivo Patto messo insieme in fretta e furia.
La scelta del Ministro di inserire questa iniziativa sulla sanità digitale all’interno del Patto per la Salute, e quindi di assoggettarla alla concertazione con le Regioni è sicuramente un’ottima scelta. Obbligata, se guardiamo alla sanità digitale come a un fenomeno “interno” al SSN.
Ma siamo proprio sicuri che sia così?
Da quello che si intravedeva nei primi documenti del Patto, la sfida era (e sarà) decisamente più impegnativa.
Perché la sanità digitale, contrariamente a quanto possano pensare alcuni, non è “hardware, software e servizi”. Non è il Fascicolo Sanitario Elettronico, né tantomeno l’e-prescription o – peggio ancora – la regionalizzazione dei sistemi informativi dei CUP.
Sanità Digitale è l’e-health (mercato destinato prevalentemente ai privati), la telemedicina (mercato che di “informatica in senso tradizionale” ha ben poco se non quel minimo di software necessario), la robotica applicata alla logistica ospedaliera, e via di questo passo.
Se la vediamo come mercato, la sanità digitale è qualcosa che sarà mosso prevalentemente dalle ASL e dalle aziende ospedaliere pubbliche da una parte e da operatori privati (service provider di telemedicina, operatori della logistica) dall’altra.
Nella sua recentissima intervista su “Panorama”, il ministro Lorenzin ha avuto modo di spiegare che il Patto non avrà tesoretti, grandi o piccoli che siano.
Nessuna dotazione finanziaria, perlomeno per quanto riguarda la finanza pubblica.
I soldi li metterà il privato, se vorrà investire.
Naturalmente, questo “privato” non è l’industria IT: è chi può e vuole investire su servizi “technology-based” capaci di razionalizzare la spesa sanitaria.
L’industria IT ha di fronte a sé l’opportunità di sviluppare business inserendosi in una filiera decisamente più articolata.
L’obiettivo è far recuperare al SSN almeno 7 miliardi l’anno, risorse che rimarranno comunque all’interno del SSN per alimentare nuovi investimenti e creare un grande circolo virtuoso in favore del cittadino/assistito.
E’ tecnicamente giusto, quindi, ipotizzare tassi di crescita a due cifre per il mercato IT specifico per la sanità. Anche se la grandissima parte di questa crescita arriverà da operazioni di filiera (“vendite intermedie”) e non da clienti afferenti direttamente al SSN.
Le due sfide principali che il SSN dovrà urgentemente affrontare sono la lotta all’eccesso di medicina difensiva (11 miliardi l’anno di spesa, secondo il Ministero) e la riprogettazione dei percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali con conseguente deospedalizzazione.
E’ qui che i vendor dell’IT dovrebbero concentrare i loro sforzi creativi: progettando soluzioni capaci di risolvere i due problemi di cui sopra e qualche altro problemino “minore” quale l’integrazione della supply-chain e la logistica sanitaria e altro.
Per non parlare di quell’immenso greenfield che è rappresentato dalle App per la sanità, destinate a crescere in quantità e volume di business con una rapidità impressionante anche nel nostro Paese.
Un bel segnale ci arriva dall’estero: alcuni service provider in ambito sanitario che si sono fino ad ora tenuti lontani dall’Italia stanno pensando di entrare in questo promettente mercato. Portando idee, modelli di business e servizi già ampiamente collaudati.
Il resto sono chiacchiere e “mangiume”, come ha molto efficacemente detto il Ministro nella sua recente intervista.
Il rischio è che ancora una volta l’industria italiana dell’IT perda un treno insistendo a pensare al SSN come ad una grandissima mucca da mungere.