Il coronavirus passerà alla storia non solo per l’effetto devastante e letale o per aver disintegrato i sistemi sanitari di mezzo mondo, ma a quanto pare si prenderà pure il merito di aver definitivamente introdotto (forse meglio: imposto) un nuovo modello sociale e lavorativo indissolubilmente imperniato sul digitale.
Ma mentre in settori come la pubblica istruzione o nel B2B l’effetto si è sentito, forte e chiaro, proprio nel settore sanitario si registra un effetto imprevisto, quasi un boomerang.
Il tema è, inevitabilmente, quello delle app per il tracciamento dei contagiati. In poche settimane siamo passati dalla esaltazione assoluta ed incondizionata del modello coreano ipotizzando addirittura di classificare le app per il tracciamento come dispositivi medici, ad una guerra santa contro la filosofia di fondo del tracciamento, da molti vissuto come una minaccia piuttosto che come un mezzo di efficace contrasto alla pandemia ancora in corso. Certo è vero che il passaggio dal tracciamento alla sorveglianza è davvero breve, ma è pur vero che veniamo da mesi di isolamento totale, con una compressione di quella libertà personale (che forse è bene ricordare: sarebbe un diritto costituzionalmente garantito) mai registrata prima d’ora nella storia della Repubblica Italiana.
L’ombra della sorveglianza
Il 20 aprile scorso, trecento accademici e ricercatori di tutto il mondo lanciano l’allarme dichiarandosi preoccupati per il rischio “sorveglianza governativa” che si nasconde dietro le app per il tracciamento. Invocano un sistema decentralizzato, evocando i rischi connessi alla centralizzazione dei dati, che potrebbe precludere all’inizio di politiche di controllo statale e di compressione delle libertà individuali. A quanto risulta l’affidamento disposto dal Commissario Arcuri alla Bending Spoons è rimasto coperto da una nebulosa, proprio relativamente alla scelta della centralizzazione dei dati. È noto che la Bending Spoons aderisce al Consorzio Pan-European Privacy Proximity Tracing (Pepp-PT), nato per sviluppare soluzioni di contact tracing. A quanto trapela da fonti di stampa pare che il Consorzio abbia accantonato senza alcuna spiegazione il progetto DP-3T che aveva la decentralizzazione come driver principale di sviluppo. La questione è finita addirittura all’attenzione del Copasir, che ha aperto un fascicolo sulla questione.
Ma il 25 aprile Google e Apple esternano il proprio appoggio al modello decentralizzato per la raccolta dei dati, promettendo garanzie sulla privacy degli utilizzatori. La chiave di volta per garantire privacy e consenso sta nella circostanza che i dati verranno archiviati ed elaborati sul dispositivo dei singoli utenti. Solo per scelta del singolo utente le informazioni potranno essere condivise. Apple e Google insomma promettono: “nessuna monetizzazione”; vengono unicamente messe a disposizione delle autorità pubbliche le API che consentiranno alle singole APP di tracciamento (predisposte in maniera autonoma da ciascuna autorità) di operare correttamente sia su Android che IOS.
L’impennata del digitale in Italia
Se confrontiamo il Report Digital 2020 del 30 gennaio 2020 con l’aggiornamento di fine aprile scopriamo alcuni dati davvero interessanti:
- Una correlazione diretta tra la rigidità delle misure di lockdown e l’incremento delle attività digitali.
- Un significativo incremento dell’utilizzo di tutte le piattaforme social (con una prevalenza di quelle in grado di garantire presenza in video).
- Un balzo in avanti dell’e-commerce (in particolare per i generi alimentari).
Qualche numero:
Su una popolazione mondiale di 7,77 miliardi, 4,57 sono connessi ad internet, e di questi 3,8 miliardi sono attivi su piattaforme social. Confrontando i dati con quelli di soli 12 mesi fa, registriamo incrementi del 7% e dell’8,7%. Entro la fine del 2020 si prevede una penetrazione dei social su oltre il 50% della popolazione mondiale.
Emerge dunque con trasparenza cristallina che dove non ha potuto la spinta normativa e culturale che, va riconosciuto, c’è stata sia da parte delle istituzioni che di molti altri tra gli stakeholders, è riuscita la pandemia. Possiamo affermare che il coronavirus è stato l’elemento disruptive per imporre, per sempre l’uso del digitale nella cultura dei tanti paesi che erano arretrati (tra cui sicuramente l’Italia). E la potenza virale di questa fiammata digitale non si misura solo nella PA (dove pure si sono recuperati decenni in pochi mesi; basti pensare alla pubblica istruzione ed agli Atenei) o nel mondo delle imprese, ma soprattutto nei rapporti sociali, violentemente e repentinamente interrotti dalle strategie dei vari governi mondiali e nell’intrattenimento.
Da un recentissimo sondaggio di GlobalWebIndex scopriamo infatti che, solo in Italia, le chiamate di gruppo su Facebook Messenger sono aumentate del 1000% dall’inizio del lockdown. Altre app come Zoom o Houseparty hanno registrato vette di utilizzo inesplorate fino a pochi mesi fa; gli utenti attivi su base quotidiana sono cresciuti di 20 volte; Google ha incrementato di 30 volte i download della applicazione Meet negli Usa, di 64 in Spagna e di 140 in Italia. E non si tratta, secondo il sondaggio di uno shift temporaneo. A quanto pare circa il 20% degli intervistati dichiara che non tornerà più indietro nell’utilizzo di device e piattaforme digitali. Insomma
Ci fidiamo davvero di chi ci governa?
A me pare che il vero problema sia la fiducia. In altre parole gli italiani si fidano di Google, di Amazon, di Apple, al punto di consentire ai loro algoritmi predittivi di “profilare” ogni utente non solo su temi quali stili di vita, abitudini di acquisto ed alimentari, ma anche su dati sensibili come frequenza cardiaca e ore di sonno/veglia, arrivando a tracciare ogni singolo luogo (bar, negozio, ristorante, albergo) quotidianamente visitato. Ci siamo mai chiesti prima del Coronavirus dove finisse e dove fosse archiviata questa enorme base di dati? Ci siamo mai resi conto prima d’ora che questa è la linfa vitale per i big data che hanno fatto e fanno ogni giorno la fortuna di questi giganti del digitale? Nessuna risposta. In altre parole lasciamo che ogni giorno soggetti terzi frughino nella nostra vita tentando di prevedere (se non di indurre) i nostri bisogni ed i nostri orientamenti di acquisto e di vita, ma quando a chiederlo è lo Stato, ed in nome della più grave pandemia della storia della Repubblica, allora ci ricordiamo della privacy, dell’etica dei modelli digitali, della sostenibilità ed alziamo barriere culturali, etiche ideologiche.
Ma a ben vedere non sono solo i cittadini a non fidarsi dello Stato: è lo Stato stesso che non si fida di sé.
Lo stesso Copasir sulla App Immuni sentenzia: “rischi geopolitici non trascurabili. Verificare che nessuno possa accedere ai dati. Significativo questo passaggio: “il Comitato premette che non intende entrare nel merito della scelta del Governo di predisporre uno strumento di tracciamento dei contatti sociali, ma sul metodo ha diverse osservazioni”, dai criteri sulla base dei quali verranno stabiliti i dati sanitari e personali, ai rischi non mitigabili sul piano geopolitico, alle possibili manipolazioni dei dati per finalità di diversa natura (politica, militare, sanitaria o commerciale) e fino alla localizzazione nazionale delle infrastrutture dedicate alla gestione dei dati ed alla garanzia che i dati non potranno essere trattati per finalità diverse. In conclusione il Copasir auspica che nessun attore nazionale e soprattutto internazionale (ivi compresa la società aggiudicataria dello sviluppo della app) possa in qualsivoglia modo accedere ai dati raccolti, e ciò al fine di impedire che simili informazioni possano entrare in possesso di attori europei ed internazionali, sia pubblici che privati, a vario titolo interessati.
A me piace ancora pensarla come Cicerone: “Salus rei publicae suprema lex esto” .