Il 1° gennaio 2013 si è consumato uno dei più importanti switch-off nella storia del processo di digitalizzazione della PA italiana: quello relativo alla dematerializzazione di accordi e contratti.
Contrariamente ad altre scadenze, il termine che il legislatore – in questo caso – ha dato agli Enti è stato davvero esiguo, evidentemente nella convinzione che tutte le PA fossero già pronte per questo importante cambio di passo.
Ed invece, a quasi due mesi dall’entrata in vigore della norma, si moltiplicano i dubbi e – soprattutto – si corre il rischio che, anche questa volta, tutto si traduca in un ennesimo “passo del gambero”.
Ma andiamo con ordine. L’art. 6 del Decreto Legge Sviluppo-bis (D.L. n. 179/2012, così come modificato dalla Legge di conversione n. 221/2012) contiene rilevanti novità in relazione all’attività contrattuale delle PA. In particolare:
a) Accordi tra PA – viene modificato l’art. 15 Legge n. 241/1990 e si prevede che, a far data dal 1° gennaio 2013, gli accordi fra pubbliche amministrazioni – pena la nullità degli stessi – devono essere sottoscritti con firma digitale, firma elettronica avanzata, ovvero con altra firma elettronica qualificata.
b) Contratti relativi a lavori, servizi e forniture – il legislatore ha modificato l’art. 11 del Codice dei contratti pubblici (D. Lgs. n. 163/2006), prevedendo che, sempre a partire dal 1° gennaio 2013, il contratto debba essere stipulato, a pena di nullità, con atto pubblico notarile informatico, ovvero, in modalità elettronica, in forma pubblica amministrativa a cura dell’Ufficiale rogante dell’amministrazione aggiudicatrice o mediante scrittura privata.
L’obiettivo perseguito dal legislatore è chiaro: la dematerializzazione dell’intera attività contrattuale della PA; tuttavia, quest’obiettivo è reso al momento più lontano da alcuni ostacoli.
Il primo ostacolo è relativo ai contratti pubblici di lavori servizi e forniture. Infatti, mentre non vi è nessun dubbio che l’atto notarile debba ormai essere sempre informatico (e già vi è notizia dei primi atti stipulati in tal modo), si è diffuso un orientamento interpretativo in base al quale la stipulazione dei contratti in forma amministrativa possa ancora essere effettuata con le modalità tradizionali.
Tale interpretazione, nata probabilmente per ovviare alle prime difficoltà poste dallo switch-off, non appare cogliere nel segno, in quanto contraria alla stessa ratio della norma che è – evidentemente – quella di dematerializzare l’intera attività contrattuale della PA e, più in generale, contraria a tutta la legislazione in tema di digitalizzazione (in tal senso si è espressa, con provvedimento del 13 febbraio 2013, anche l’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici).
Di conseguenza, gli Enti sono chiamati a dotarsi di tutti gli strumenti necessari e – naturalmente – a rivedere i propri atti organizzativi al fine di essere pronti alle sottoscrizioni.
Queste devono ormai avvenire in forma integralmente informatica, anche nel caso in cui le altre parti non dispongano di sistemi di sottoscrizione elettronica previsti dalla norma (come la firma digitale). Infatti, la firma digitale è richiesta doverosamente all’ufficiale rogante, ma non anche alle parti che possono anche apporre ancora la sottoscrizione autografa, acquisita tramite scansione: l’ufficiale rogante, infatti, compie un’attestazione di tutte le operazioni effettuate in sua presenza e la sottoscrive con firma digitale.
Seguendo tale orientamento, la stipula dei contratti deve avvenire in modo del tutto differente rispetto al passato (anche in virtù del principio di nullità per violazione delle forme. Devono essere eseguiti attraverso l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione anche tutti gli adempimenti successivi alla stipula (come, ad esempio, la registrazione).
Ed ecco un altro degli ostacoli alla piena attuazione della norma: alcune direzioni regionali delle Entrate continuano a richiedere, per la registrazione, una copia cartacea “da consegnarsi a mano”, adducendo come motivazione che la norma contenuta nel Decreto Sviluppo-bis si limiterebbe a digitalizzare solo la procedura di stipula (e non anche quella di registrazione).
Tale prassi, oltre ad essere indice di grave miopia interpretativa, è problematica sotto un duplice ordine di profili:
a) organizzativi: l’estrazione di copia cartacea del contratto informatico inserirebbe elementi di complessità e un aggravio anche economico per le Amministrazioni;
b) normativi: in base alle norme del CAD – proprio come modificato dalla stessa Legge n. 221/2012 – le comunicazioni tra Enti debbono avvenire necessariamente in modalità telematica. L’art. 47, comma 1-bis, CAD prevede che l’inosservanza di quest’obbligo, ferma restando l’eventuale responsabilità per danno erariale, comporta responsabilità dirigenziale e responsabilità disciplinare.
Insomma, il legislatore questa volta è stato chiaro: la riforma dei contratti della PA non può rimanere sulla carta.