È in crescita esponenziale l’utilizzo di cripto-valute per vendere e comprare attività illegali e il loro utilizzo sui dark net markets (pari al 60%, per un valore di 601 milioni di dollari). Lo certificano i dati dell’ultimo trimestre del 2019 pubblicati da Chainalysis a fine gennaio.
Una notizia che solo apparentemente si pone in contrasto con il crescente deprezzamento del Bitcoin e con la circostanza che, in ogni caso, l’utilizzo della cripto-valuta per fini illeciti rimane una minima percentuale, stimata in un 1% che è però raddoppiato lo scorso anno.
In un contesto che riesce a fornire sempre nuovi strumenti per rendere ardua l’attività di contrasto al fenomeno, l’Italia si pone comunque all’avanguardia, sia sul fronte legislativo che operativo.
“There is virtually no limit to the schemes which can be developed by money launders to achieve their goal”[1].
Utilizzo di criptovalute per scopi illegali, un fenomeno sottostimato
I commentatori di oltreoceano evidenziano il dubbio di come possa essere probabile che i già menzionati dati sottostimino il fenomeno delle transazioni Bitcoin destinate a scopi illegali e questo perché di fatto è molto difficile identificare alcune delle attività dedicate al ransomware, all’evasione fiscale e al riciclaggio di denaro. E infatti, i pericoli dell’utilizzo delle cripto-valute per «finalità illecite» sono principalmente derivanti dal regime di anonimato o (di pseudo anonimato) tipico delle transazioni su blockchain. Resta il fatto che il monitoraggio, o il tentativo di monitoraggio, sull’uso illecito dei bitcoin sta diventando sempre più pervasivo, lo dimostrano, ancora, i dati di Chainalysis con riferimento alle truffe triplicate nel 2019 con un ammontare complessivo stimato negli USA in 3,5 miliardi di dollari. Dato che non sorprende considerato il proliferare dei dark net markets, mercati online dove è possibile vendere e comprare beni e servizi illegali – droghe, armi, materiale pedopornografico, etc. – utilizzando le cripto-valute come strumento di pagamento.
Sebbene la quota totale dei mercati darknet sull’attività di cripto-valuta in entrata rimanga estremamente bassa (0,08%), il recente aumento del volume delle transazioni dimostra la resistenza dei mercati darknet di fronte all’intensificarsi dei controlli delle forze dell’ordine[2] (v. immagine 1).
Fonte: Insight, Darknet Market Activity Higher Than Ever In 2019 Despite Closures. How Does Law Enforcement Respond?
In un primo momento la strategia delle autorità di polizia di “andare a caccia” dei dark net market è sembrata profittevole quando si è arrivati alla chiusura di piattaforme note come AlphaBay e Hansa. Tuttavia, appare oggi una lotta contro i mulini a vento se si pensa che alla fine del 2019 sono stati rilevati almeno 49 darknet attivi.
Le difficoltà dell’attività di prevenzione e investigazione
I commentatori di oltreoceano evidenziano, inoltre, come alcuni darknet stiano adottando nuove infrastrutture per evitare di essere intercettati dalle autorità pubbliche. OpenBazaar, per esempio, ha una struttura completamente decentralizzata, simile alla blockchain stessa o al browser web Tor, che renderebbe impossibile risalire all’identità del soggetto che opera con cripto-valute. Il nodo cruciale dell’attività di prevenzione e investigazione resta di fatto la complicata identificabilità degli indagati; la complessa acquisizione di prove circa le movimentazioni di valuta virtuale e la riconducibilità a soggetti specifici; la concreta sequestrabilità delle virtual currencies e delle disponibilità presenti sui wallet, tutte criticità che sono emerse anche dall’ultimo rapporto annuale 2019 della Direzione Investigativa Antimafia (DIA) e che si prestano in modo utilmente strumentale alla attività di riciclaggio di danaro sporco[3].
Guardando al fenomeno in maniera asettica, la moneta virtuale e quindi il bitcoin si potrebbe collocare “in uno spazio intermedio tra moneta fisica ed elettronica”, nel tentativo di assumerne i rispettivi vantaggi[4], ma con un connotato normativo che nel nostro Paese emerge dalla sua definizione che in fatto di anti-riciclaggio la descrive come “rappresentazione di valore digitale che non è né emessa da una banca centrale o da un ente pubblico né è legata a una valuta legalmente istituita, non possiede uno status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio, ed eventualmente per altri fini, e può essere trasferita, memorizzata o scambiata elettronicamente” (Art. 1 lett. qq) D.Lgs. n. 231/2007, così come modificato dal D.Lgs. n. 90/ 2017[5]). Fuori da ogni sistema centralizzato e quindi esente dalla gestione e dal controllo di istituti bancari e finanziari, il bitcoin si muove, come noto, su registri distribuiti transnazionali che garantiscono un livello molto alto di anonimato: le transazioni sono perfettamente tracciabili ma l’identità dei singoli operatori non è facilmente rintracciabile, poiché questi non agiscono direttamente con il proprio nome e cognome ma attraverso un account, a cui si può risalire solo attraverso chiavi criptografate. Negli anni sono stati ideati i cosiddetti servizi di mixing consistenti in tecniche finalizzate a rendere più difficoltosa la ricostruzione delle operazioni registrate, attraverso la creazione dei cosiddetti conti bounce o la raccolta dei fondi di coloro che usufruiscono del servizio in un unico conto, per poi essere inviati ad account diversi magari che fanno capo agli stessi soggetti.
Inoltre, sono a disposizione del mercato, software che consentono di camuffare il proprio indirizzo IP con estrema facilità.
Prevenzione del riciclaggio mediante cripo-valute, Italia all’avanguardia
Tutti questi elementi nel loro insieme fanno emergere chiaramente la preoccupazione del legislatore e delle autorità centrali, Banca d’Italia si è espressa più volte con chiari moniti negli ultimi anni, nonché la quantità di ostacoli che le autorità medesime devono fronteggiare per tracciare le transazioni illegali ed eventualmente anche identificare il soggetto agente. Il legislatore italiano è stato sicuramente precursore in fatto di prevenzione del riciclaggio mediante cripo-valute, se si pensa che già nel Decreto Legislativo n. 90/2017 era stata introdotta la qualifica di cambia valute virtuali (i.e. exchanges), con l’obbligo degli stessi di iscrizione nell’apposita sezione del registro dei cambia valute (i.e. OAM) pena sanzioni amministrative e loro assoggettamento agli obblighi antiriciclaggio in virtù dell’estensione di quegli obblighi di adeguata verifica, conservazione dei dati e comunicazione di operazioni sospette, già previamente previsti dalla normativa antiriciclaggio in forza dell’articolo 17 del D.Lgs. n. 231/2007.
Le maglie del monitoraggio preventivo si sono ulteriormente strette con il D.Lgs n. 125/2019 che ha esteso gli obblighi di registrazione nell’OAM e quelli di anti-riciclaggio anche ai prestatori di servizi di portafoglio digitale (i.e. custodian wallet providers) definiti come la “persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali”.
La sensibilità crescente verso il tema in esame si evince dai dati pubblicati dall’UIF (Unità di Informazione Finanziaria) e basati sull’analisi finanziaria delle segnalazioni di operazioni sospette (le così dette SOS) pervenute principalmente nel 2018 anche da prestatori di servizi in valuta virtuale, a valle della entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 90/2017. Stando ai dati pubblicati dall’UIF con la newsletter n. 4 del 2019 fra il 1° gennaio 2013 e il 31 dicembre 2018 sono state inoltrate complessivamente 898 segnalazioni riconducibili a impieghi sospetti di valute virtuali; oltre la metà pervenuta nel 2018.
Fonte: Newsletter 4 – 2019, UIF.
L’esame finanziario delle segnalazioni pervenute all’UIF evidenzia come in molti casi il sospetto segnalato riguardi le modalità di costituzione della provvista impiegata in valute virtuali o la connessione dell’operatività con attività illecite (es. truffe, frodi informatiche). Solo per completezza si riporta che i sospetti di finanziamento del terrorismo segnalati in connessione con l’utilizzo di valute virtuali sono stati numericamente di scarso valore (15 su 898).
Le strategie di contrasto
Purtroppo, non ci sono dati ufficiali sul numero e tipologia di crimini attuati mediante l’utilizzo di cripto-valute, tuttavia il fenomeno viene continuamente monitorato dai vari attori in campo che a livello istituzionale sono attivi nell’elaborare strategie efficaci di prevenzione, è il caso dell’UIF che ha fornito indicazioni integrative per migliorare l’attività di segnalazione degli operatori mediante nuove modalità di raccolta delle informazioni relative alle operazioni sospette. La stessa UIF è al tavolo con la DIA, il DIS (Dipartimento Informazioni e Sicurezza), le Dogane del ministero Economia e Finanze, la Polizia postale del dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, lo Scico (Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata) e il Nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza per analizzare ed escogitare le tecniche investigative per poter tracciare sulla tecnologia blockchain le singole transazioni e l’identità degli operatori.
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- Broome J., Anti-money laundering, International practices and policies, Hong Kong, 2005. ↑
- Ultimi dati forniti da Chainanalysis. ↑
- Relazione annuale 2019, DNA. ↑
- BITCOIN E RICICLAGGIO 2.0 di Ludovica Sturzo. ↑
- Il decreto legislativo del 2017 è attuazione della direttiva (UE) 2015/849 relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo erecante modifica delle direttive 2005/60/CE e 2006/70/CE e attuazione del regolamento (UE) n. 2015/847 riguardante i dati informativi che accompagnano i trasferimenti di fondi e che abroga il regolamento (CE) n. 1781/2006». ↑