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Criptovalute killer dell’ambiente? Sì, ma ci sono anche le alternative “green”

Le criptovalute – non solo il bitcoin – sono insostenibili dal punto di vista ambientale. Facciamo il punto sul loro impatto e sulle alternative meno devastanti per la salute del Pianeta, come Chia Coin, creata dal “papà” di BitTorrent

Pubblicato il 02 Lug 2021

bitcoin

È possibile diventare ricchi con le criptovalute senza dare il colpo di grazia al pianeta in termini di costi ambientali? Si è ampiamente discusso, e ci torneremo anche qui, della eco-insostenibilità del bitcoin e di come, allo stato, sembri inverosimile un dietrofront. Ma esistono alternative, come Chia Coin, che hanno un impatto meno devastante in fatto di consumo energetico.

Ma facciamo, prima, un passo indietro, per capire qual è veramente l’impatto delle criptovalute e perché non è più possibile continuare a fare finta di niente.

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Ascesa del bitcoin e sostenibilità finanziaria

Partiamo col ricordare che la quantità di criptovalute comincia a crescere in maniera esponenziale, senza alcun freno né controllo, fino a quota 63.000 dollari, proprio nel medesimo periodo in cui la Commissione Europea riscrive il paradigma della sostenibilità finanziaria, declinandolo in chiave green.

Era l’8 marzo 2018, quando la Commissione europea pubblicava un Piano di Azione per la Finanza Sostenibile che riscriveva le regole della finanza sostenibile dettando 3 obiettivi che dovevano guidare le aziende nell’allocare i propri investimenti (e le istituzioni finanziarie nel finanziare le aziende):

  • Riorientare i flussi di capitali verso investimenti sostenibili al fine di realizzare una crescita sostenibile ed inclusiva
  • Gestire i rischi finanziari derivanti dai cambiamenti climatici, dal degrado ambientale, delle risorse
  • Promuovere la trasparenza e la visione a lungo termine delle attività economico – finanziarie

A dicembre 2019 s’insedia la Commissione Europea presieduta da Ursula Von der Leyen che punta il timone dritto sul Green Deal EU, inaugurando una linea strategica che promuove l’economia circolare, caratterizzata da un uso efficiente, dal ripristino della biodiversità e dalla riduzione dell’inquinamento.

Nel frattempo, e in parallelo, il fenomeno delle criptovalute esplode in una euforia che porta il Bitcoin (ed altre criptovalute secondarie) ai massimi livelli (cfr. grafico sotto) in una bolla speculativa senza precedenti.

Oggi, curiosando sul sito ufficiale della BCE[1] scopriamo che la moneta reale (euro) circolante ad aprile 2021 è pari a 26.589 milioni (cfr. grafico sottostante)

A questo punto la domanda sorge spontanea: quanti Bitcoin ci sono in circolazione?

Ecco la risposta[2]:

Alla quotazione odierna (14 giugno 2021) di 39.975,33 euro il controvalore in circolazione dei soli Bitcoin è dunque pari a 763.313.935.601,25 euro.

Si, avete letto bene: 763.314 milioni! Si, avete letto bene: gli euro in circolazione sono il 3,5% dei soli Bitcoin! (e questo senza contare gli 1.905.375 di Bitcoin in lavorazione e le altre circa 2.000 criptovalute)

Gli aspetti quantitativi e ambientali

Ma ora mettiamo per un attimo da parte gli aspetti monetari, finanziari e speculativi e soffermiamoci su aspetti quantitativi ed ambientali.

Quanto hardware è stato necessario impiegare per produrre una simile quantità di criptovalute? Quanta CO2 è stata immessa nell’ambiente? Quanta energia elettrica (per lo più prodotta da combustibili fossili) è stata impiegata?

A quanto pare un tale Elion Musk, dopo aver annunciato (il 13 aprile scorso) di aver investito 1,5 miliardi di dollari in Bitcoin (determinando il massimo storico, in pari data, a 63 mila dollari) si è improvvisamente ravveduto, in un rigurgito green, denunciando che l’eccessiva quantità di energia necessaria a produrre la criptovaluta e l’impennata dei prezzi dell’ultimo periodo era divenuta tale da trasformare l’opportunità del secolo in una minaccia ambientale.

Ben venga il tardivo ravvedimento; certamente doveroso porsi (finalmente?) il problema della sostenibilità di un business che, analizzato con le logiche introdotte dalla CE sopra esplicitate o con la tassonomia DNF (che a breve assurgerà a must per tutte le aziende che ambiscono ad avere una certificazione di eco-sostenibilità o un green pass).

Resta però una domanda. Attese le quantità in giro di criptovalute, non sarà troppo tardi? È un caso se il 6 giugno scorso leggiamo sulla stampa che El Salvador legalizza i Bitcoin, o che sin dal novembre del 2020 le Banche Centrali non nascondono più un forte interesse sulle CBDC (Central Bank Digital Currency)?

Nonostante sia scontato affermare che il fair value di una qualsiasi criptovaluta sia dato dal valore liberatorio, giuridicamente riconosciuto e riconoscibile negli scambi, resta il fatto oggettivo che ogni giorno avvengono migliaia di transazioni perfezionate attraverso le crypto, pure in regime di deregulation. Non a caso PayPal ha esplicitato l’intenzione di supportare Bitcoin e simili per il commercio digitale (il che significa una platea di 26 milioni di merchant e svariati milioni di utenti).

Quanto costa all’ambiente il mining del bitcoin

A pensar male, allora, è possibile affermare che una eventuale strategia di contrasto ai Bitcoin non poteva che essere individuata in quello che, a ben guardare, è il vero (se non l’unico) tallone di Achille dello strumento: il costo ambientale ed energetico davvero insostenibile. Proviamo a tirare fuori qualche numero.

Due recenti studi della Cambridge University e dell’International Energy Agency hanno stimato in 120 terawattora l’anno le attività delle mining firm sparse nel globo: per avere un metro di paragone: si tratta del fabbisogno medio annuo di una nazione di medie dimensioni. Secondo l’Ateneo statunitense la cifra ad oggi si attesterebbe già a 147,8 terawattora annui. Quanto alle emissioni di anidride carbonica, si stima che l’estrazione ai livelli attuali produca circa 23 tonnellate di Co2 in un anno. Per avere una idea: le stesse quantità sono oggi prodotte dalla Giordania o dallo Sri Lanka. Si badi bene che questo studio riguarda esclusivamente i Bitcoin. Ribadito che ad oggi si contano oltre 2.000 criptovalute, si lascia alla intuizione del lettore una proiezione dei livelli di inquinamento ambientale e di consumo energetico direttamente connessi al topic delle criptovalute.

Ma, come detto, le dimensioni assunte dal fenomeno non rendono ragionevole ipotizzare un dietrofront. Piuttosto si registra come in alcune parti del mondo (Mongolia) sia diventato possibile minare crypto solo a condizione di dimostrare l’utilizzo integrale ed esclusivo di energia da fonti rinnovabili. Una soluzione sicuramente più compatibile con il Green Deal mondiale e che contempera e rafforza l’esigenza di dismettere le centrali alimentate a carbon fossile sostituendole con centrali integralmente alimentate da energie rinnovabili.

Ma la strada della sostenibilità passa pure attraverso soluzioni innovative del consenso della rete.

Dal Proof of Work al Proof of Space and Time

Abbiamo detto in precedenza che il sistema tradizionale per minare Bitcoin e le altre criptovalute è basato sul Proof of Work, ovvero il sistema che remunera i singoli nodi della blockchain che mettono a disposizione grandi capacità di calcolo per terminare una transazione molto complessa che richiede grandi capacità di calcolo sulla base di un algoritmo hashcash. Un processore di nuova generazione (Antminer S9), ottimizzato per minare bitcoin alla massima velocità possibile e con il minor consumo energetico consuma tra i 2500 ed i 3000 watt al giorno per produrre una quantità mensile di 0,01831 Bitcoin, oltre che immettere notevoli quantità giornaliere di Co2 in atmosfera.

Il programmatore americano Bram Cohen, noto alle cronache per aver inventato BitTorrent (un peer to peer diventato virale a partire dalla fine degli anni ’90) ha fondato sul finire del 2017 la Chia Network, società proprietaria di una piattaforma e di una criptovaluta innovativa: Chia Coin. Questa criptovaluta, lanciata a maggio 2021, ha un protocollo di mining che si fonda sul Proof of Space and Time. Il processo di estrazione che sostituisce il mining si chiama farming e si basa sulla messa a disposizione del nodo dello spazio libero (cioè quello non utilizzato dei pc in circolazione con la finalità di minare senza aggiungere nuovo hardware (sfruttando al massimo quello già esistente) e soprattutto senza inquinare ulteriormente o consumare energia in grandi quantità. Insomma, basta mettere in condivisione pc che ciascuno di noi ha a casa tramite Mainnet per diventare farmer e iniziare a minare Chia Coin senza portare il peso dell’insostenibile incoerenza delle criptovalute, inseguendo il sogno di diventare un po’ più ricchi, ma in etica green.

Note

  1. (https://www.ecb.europa.eu/stats/policy_and_exchange_rates/banknotes+coins/circulation/html/index.it.html)
  2. https://www.buybitcoinworldwide.com/it/quanti-bitcoin-ci-sono-li/

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