Il mercato delle criptovalute, il cui valore complessivo stimato alla fine del 2021 ammonta a circa 2 trilioni di dollari, guarda con particolare attenzione in questi giorni al caso SEC vs Ripple Labs Inc., la società tecnologica americana che sviluppa il protocollo di pagamento Ripple e la relativa rete di scambio mediante l’utilizzo del digital coin XRP.
Il tutto mentre in Italia, il 3 febbraio, con imminente pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è arrivato il decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze che dà attuazione alle regole che dovranno essere seguite per operare con le criptovalute in Italia.
Il provvedimento, applicabile ai prestatori di servizi relativi a valute virtuali (c.d Virtual Asset Service Providers) prevede, tra l’altro, l’obbligo per gli operatori di iscrizione ad un registro che sarà gestito dall’Oam, l’organismo degli agenti e dei mediatori creditizi.
Le due notizie, italiano e USA, sono collegate: vanno nella direzione di una ricerca di maggiori tutele da dare ai consumatori, inquadrando le criptovalute come strumenti finanziari a tutti gli effetti.
Un passaggio però che, come vedremo, non sarà facile e rischia anzi di essere sofferto.
Il decreto italiano per registro operatori criptovalute
In particolare, i soggetti interessati che già operano avranno 60 giorni per comunicare la loro attività all’Oam, mentre coloro che iniziano la propria attività dovranno previamente iscriversi al registro; in mancanza l’attività prestata sarà considerata abusiva. Gli operatori saranno inoltre tenuti ad effettuare delle segnalazioni trimestrali nei confronti dell’Oam con riferimento alle operazioni concluse dai propri clienti, nonché ad adempiere agli obblighi antiriciclaggio previsti dalla normativa italiana.
A tal proposito, è bene ricordare che l’ordinamento italiano non prevede una definizione generale di criptovalute, mentre una definizione legale di “valute virtuali” ai fini dell’antiriciclaggio è stata inserito nel D.Lgs. n. 90 del 2017, che ha recepito in Italia la Quarta Direttiva Antiriciclaggio.
La definizione contenuta ai fini della disciplina AML rappresenta solo il primo tentativo di definire un fenomeno così complesso come quello delle criptovalute e nella definizione di cui sopra le valute virtuali sono definite in modo ampio, poiché l’obiettivo del Decreto Legislativo, inclusa la definizione, era quello di catturare la gamma più ampia possibile di risorse digitali per impedirne l’uso per riciclaggio di denaro e per facilitare il terrorismo.
Noti infatti sono i rischi legati all’utilizzo delle criptovalute come lavanderie per riciclare il denaro sporco. I criminali spesso intendono avvantaggiarsi della facilità d’uso degli sportelli ATM in criptovalute; in particolare, esplorano come convertire denaro sporco in criptovalute, o viceversa, e come spostare i proventi illeciti interfacciandosi con altri membri della rete criminale. Operazioni a livello nazionale e internazionale consentono così di aggirare i controlli finanziari, facendo scorrere indisturbato un fiume di denaro nero.
Ovviamente l’utilizzo, lo stoccaggio e lo scambio di valute virtuali in Italia non è vietato, anche se, negli anni, sia la Banca d’Italia che la Consob hanno emesso avvisi piuttosto severi sui pericoli delle criptovalute.
Infatti, il regolatore bancario e l’organismo di vigilanza finanziaria hanno evidenziato i rischi, rispettivamente, per il sistema bancario e per gli investitori italiani, di fare affidamento su tecnologie e asset di investimento ancora non regolamentati.
In conclusione, anche se il processo è sicuramente iniziato, la storia del tentativo di regolamentare l’utilizzo dei digital assets e delle valute virtuali sembra essere ancora, anche in Italia, lungi dall’essere completato.
La causa SEC vs Ripple
In parallelo, nella causa promossa dalla SEC negli ultimi giorni dell’amministrazione Trump al giudice federale di New York viene chiesto se possa essere condivisa l’argomentazione di Ripple per cui i regolatori avrebbero dovuto preventivamente e chiaramente individuare quali digital asset possano essere oggetto di regolamentazione, anziché cercare di mettere in regola l’industria di riferimento semplicemente utilizzando sistemi coercitivi.
La SEC fonda la propria causa sul fatto che Ripple abbia, in violazione delle regole concernenti la protezione degli investitori, raccolto circa 1,4 miliardi di dollari vendendo i digital coin XRP; la replica di Ripple si fonda sul fatto che gli XRP sono utilizzati come strumenti di pagamento a livello internazionale e dunque non presentano le caratteristiche per essere classificati quali strumenti finanziari oggetto di regolamentazione. La società californiana fa anche rilevare come molte delle vendite degli XRP siano avvenute prima del 2017, cioè prima che la SEC stabilisse il principio per cui le criptocurrencies dovevano comunque obbedire a leggi promulgate per assicurare la tutela degli investitori.
Si noti che, nonostante le linee guida sulle criptovalute emanate dalla SEC nel 2017, molte criptovalute sono circolate negli ultimi anni senza incorrere nello scrutinio delle autorità regolamentari statunitensi; solo 56 casi sono stati avanzati dalla SEC contro gli emittenti token digitali, ma tutti si sono conclusi con una transazione extragiudiziale, e dunque senza che il caso fosse portato di fronte ad un giudice federale chiamato ad appurare la legittimità delle pretese della SEC di regolamentare questi strumenti.
Stante queste premesse è chiaro che una vittoria della SEC infliggerebbe un colpo durissimo all’industria delle criptovalute, mentre un accoglimento delle tesi difensive di Ripple favorirebbe la chiamata generale sollevata dall’industria di riferimento perché il Congresso statunitense produca leggi nuove e più chiare.
Secondo la SEC solo pochi digital assets possono essere classificati come commodities, e quindi essere esclusi dall’applicazione di leggi a protezione degli investitori; per contrasto, a giudizi della SEC, l’utilizzo di XRP come moneta e dunque la sua natura di strumento finanziario è evidente.
Ripple ha stressato l’aspetto di utilizzo commerciale degli XRP ma ha omesso di rendere pubblico il fatto di aver pagato un money transitter per accettare gli XRP.
Nel frattempo, è notizia delle ultime ore, il giudice Analisa Torres della Corte Federale di Manhattan, incaricata di dirimere il contenzioso SEC-Ripple, ha ordinato la produzione in giudizio di un memo redatto nel lontano 2012 da una non meglio identificata global law firm a beneficio di Ripple, dal quale – a giudizio della SEC – si evincerebbe la conclusione che gli XRP possono essere assimilati a delle securities. Ripple ovviamente contesta tale lettura del memo, avendo addirittura citato il memo (anche se non l’ha mai prodotto in giudizio) a supporto della tesi che tende a classificare digital assets quali gli XRP come commodities.
Se dunque anche l’interpretazione ad opera degli esperti delle poche norme del diritto esistenti attualmente in materia sembra essere difficoltosa, è di tutta evidenza che il processo di adattamento del nostro diritto ai fenomeni più innovativi legati alla finanza digitale appare segnato da un percorso impervio e difficoltoso.
I risvolti mediatici della causa
La causa presenta anche dei risvolti mediatici da produzione hollywoodiana non trascurabili e che contribuiscono a porla al centro dell’attenzione dei media statunitensi.
Ripple ha deciso infatti di affidare la difesa della propria causa a Mary Jo White, ex capo della SEC. Come nella migliore tradizione delle serie TV statunitensi sul mondo finanziario, White ha condotto una difesa del processo molto aggressiva contro il suo ex datore di lavoro, cercando di fornire prove sul fatto che anche la stessa SEC avesse autorizzato i propri dipendenti a negoziare in XRP. White ha anche cercato di fornire evidenza della presenza di email all’interno della stessa autorità regolamentare statunitense da cui si poteva evincere come gli stessi funzionari SEC fossero divisi circa la necessità di sottoporre Ripple a regolamentazione; il tentativo di produrre questi scambi di corrispondenza interni si sono però scontrati con la decisione del giudice che ha ritenuto solo alcuni ma non tutti i records della SEC producibili in giudizio.
La sfida delle regole per le criptovalute
Le due notizie, in Italia e Stati Uniti, sono da inquadrare in quelli che sono i notevoli sforzi compiuti negli ultimi anni da molti regolatori per attrarre le criptovalute e le valute digitali nel novero degli strumenti finanziari e non delle commodities, così da sottoporre questi asset digitali alle rigide regole da osservare a tutela dei risparmiatori.
Tentativi ai quali si contrappongono le proteste degli operatori del settore volte a lamentare l’indebita ingerenza, se non addirittura l’abuso di potere dell’autorità di vigilanza dei mercati statunitense.
Il caso pendente presso il giudice federale di Manhattan sembra, comunque, davvero in grado di poter fornire un valido banco di prova per le ambizioni della SEC di regolamentare l’industria degli asset digitali che per anni è sfuggita all’applicazione delle regole e dei lacciuoli imposti dai regolatori.
È evidente come questa causa stia a testimoniare anche la difficoltà dei legislatori nel rincorrere le sempre più rapide evoluzioni delle soluzioni tecnologiche poste al servizio della finanza. Implementare leggi che siano in grado di tutelare gli investitori di fronte a fenomeni quali le criptovalute e i digital assets non è semplice; ma la risposta a questa difficile rincorsa, a giudizio di molti, non può essere affidata all’utilizzo strumentale di leggi create negli anni ’30.
La SEC ha anche sostenuto che Ripple fosse a conoscenza dell’imminente intenzione del regulator di normare i digital assets equiparandoli a delle securities già da tempo; di contro Ripple fa leva su uno statement del 2018 di un rappresentante della SEC – William Hinman – dal quale sembra potersi evincere la conclusione che i digital assets non possano essere classificati come securities. Nella pronuncia in questione Hinman sembra sostenere che ethereum, la seconda criptovaluta al mondo dopo bitcoin, non ricade nella definizione di security. Ripple ovviamente interpreta il pensiero di Hinman come una sorta di via libera per le criptovalute e i digital assets.
Fatto sta che attorno al fenomeno delle criptovalute i soldi che girano sono sempre tanti: Brad Garlinghouse, l’attuale AD di Ripple, ha guadagnato circa $160 milioni dal 2017 fino al 2020 vendendo XRP che aveva ricevuto dalla società; il co-fondatore di Ripple Christian Larsen, che è stato CEO fino al 2016, ha guadagnato $450 milioni da vendite degli XRP avvenute tra il 2015 e il 2020, secondo ricostruzioni fornite dalla SEC.
Sia Larsen che Garlinghouse hanno chiesto che le accuse avanzate dalla SEC siano rigettate. Secondo le argomentazioni difensive, la SEC non aveva alcuna possibilità di intervento, essendo le vendite avvenute oltreoceano. Di fatto, dunque, anche gli avvocati che difendono i due alti dirigenti di Ripple hanno sottolineato la mancanza di competenza sulla materia della SEC.
Vi è da dire che nel suo duello con la SEC Ripple non ha certamente lesinato risorse e ingenti sforzi anche economici; nel tentativo comune ad altri operatori dell’industria dei digital assets di sostenere che i digital token vadano assimilati a delle commodities, lo scorso anno Ripple ha speso ben 1,1 milioni di dollari in attività di lobbying volte ad affermare la necessità che i digital token siano regolamentati dalla Commodity Futures Trading Commission, l’autorità di vigilanza sulle merci nota per essere sicuramente meno rigida della SEC.
“Tentare di assimilare i digital asset, di per sé più simili a merci che a prodotti finanziari, semplicemente non può funzionare” è stato il lapidario commento di Stu Alderoty, General Counsel di Ripple.