l'analisi

Open data, la PA delude le Pmi: che fare

I nuovi dati presentati dagli osservatori del Politecnico di Milano rilevano che gli open data sono una delusione. Non sono ancora ben gestiti degli enti locali e quindi le Pmi non riescono a metterli a valore. La svolta è nell’industrializzazione del processo: ecco come

Pubblicato il 01 Ott 2018

Vincenzo Patruno

Data Manager e Open Data Expert - Istat

OpenTusk: l'iniziativa Open Data che trasforma la regione Puglia

Lo sviluppo degli open data pubblici in Italia è deludente: le PA procedono a caso nella pubblicazione e quindi le Pmi non riescono a utilizzare i dati per creare business. Per ora gli open data sono un’occasione sprecata, da noi, ma guai ad arrendersi: è ancora possibile correggere la rotta.

Sono queste le riflessioni che scaturiscono dai dati presentati dall’Osservatorio eGovernment della School of Management del Politecnico di Milano: una recente indagine sulle PA locali e Unioncamere, con una rilevazione fatta su 222 imprese manifatturiere tra 10 e 249 addetti dislocate su  tutto il territorio nazionale.

La ricerca: domanda e offerta di open data

Innanzitutto va detto che la ricerca mette “insieme” chi gli Open Data li produce (in questo caso specifico l’indagine dell’Osservatorio ha guardato alle PA locali) e chi invece potrebbero essere dei potenziali utilizzatori (non solo di questi dati ma più in generale di tutti gli Open Data della PA). In questo caso si è guardato alle imprese manifatturiere, non a tutte ma soltanto alle “piccole” e “medie” imprese.

La ricerca è andata quindi a guardare sia dal lato dell’offerta di Open Data sul territorio da parte degli enti locali, sia dal lato della domanda, cercando di capire se c’era (e quale fosse) la domanda di Open Data di una parte del tessuto produttivo del Paese (di circa l’8% sul totale delle imprese manifatturiere).

Risultati deludenti, ecco perché

Detto questo, diciamo subito che il quadro che ne esce fuori è senza ombra di dubbio piuttosto deludente. Che la situazione fosse questa non è stata però una sorpresa. Da diverso tempo ci sono continui segnali che in modo inequivocabile ci dicono delle forti criticità che ci sono a riguardo degli Open Data rilasciati prevalentemente dagli enti locali (ne abbiamo parlato più volte anche qui su Agendadigitale.eu). Criticità che emergono molto bene anche nella ricerca effettuata dall’Osservatorio eGovernment del Politecnico sui Comuni italiani.  

In sintesi, i Comuni pubblicano quello che vogliono, come vogliono e quando vogliono. E lo fa l’86% dei Comuni con più di 50.000 abitanti e il 28% di quelli con meno di 5.000 (su un campione di 731 Comuni)

Nel caso di dati a livello comunale, questo rende impossibile o, nella migliore delle ipotesi, costosissimo ricomporre (quando la natura del dato lo consente) i dati di diversi Comuni tra loro per arrivare ad un unico dataset che abbia una copertura significativa sia in termini di superficie territoriale, sia in termini di popolazione residente interessata.

Ovviamente non tutti i Comuni “pesano” allo stesso modo. Sarebbe però come ricomporre un vaso di coccio partendo da frammenti diversi tra loro per forma e dimensione sapendo già in anticipo che non si incastreranno mai perfettamente tra loro e che comunque vada mancheranno buona parte dei pezzi necessari.

Open data per i trasporti

A questo punto si dirà che Moovit, una delle app di successo mondiale sui trasporti pubblici fa proprio questo. Raccoglie i dati sui trasporti, spesso disponibili proprio come Open Data, li mette insieme, li integra con dati raccolti in modalità “crowd” (e altre fonti) e li consolida all’interno dei propri sistemi. E’ proprio questo che consente ai 100 milioni di utenti di pianificare i propri spostamenti in più di 2500 città di 80 Paesi del mondo.

Ma come fa a mettere insieme dati e open data provenienti da comuni e aziende di trasporti sparse per il mondo?’ Va innanzitutto detto che i “dati sui trasporti” trattati da Moovit sono una cosa ben precisa, che riguarda gli orari, le fermate e i percorsi dei mezzi pubblici. E che fanno spesso riferimento a standard condivisi. Non dimentichiamo poi che Moovit non è una azienda che fa qualcos’altro e che usa i dati per migliorare ad esempio la produttività interna o la competitività sui mercati. Il core business di Moovit è proprio fornire i servizi sui trasporti pubblici a tutti i suoi utenti. E tutti i suoi sforzi sono concentrati lì. A rendere “facile” per le città e aziende di trasporto pubblico conferire dati in cambio di un servizio a 100 milioni di potenziali utenti.

Pmi e open data

Cosa molto diversa dell’utilizzo di Open Data da parte delle piccole e medie imprese manifatturiere in Italia. Sono infatti aziende che fanno “altro”. E’ possibile che gli Open Data possano servire a contribuire, assieme ad altri dati, a migliorare la produttività interna, la loro competitività sui mercati o ancora le strategie aziendali. Ma in questo caso gli Open Data dovrebbero essere dati “pronti all’uso”, caratteristica questa che si riesce a ritrovare negli Open Data rilasciati principalmente da Pubbliche Amministrazioni centrali o da alcune Regioni. Fermo restando che la ricerca di Unioncamere ha evidenziato un disallineamento piuttosto forte tra la percezione che le aziende hanno di se stesse nell’essere “data driven” e invece la presenza reale di professionalità adeguate. Sembra come se il “data management” venga confuso con la più tradizionale gestione della contabilità aziendale o poco più.

Mentre infatti il 70% delle aziende intervistate sostiene di essersi dotate di strumenti e di competenze per il data management, il 68% non conosce l’esistenza delle figure professionali necessarie.  Ad esempio il Data Scientist è presente solo nel 5% del campione analizzato. E’ sicuramente un controsenso se l’azienda ritiene di aver investito in data management.

Industrializzare gli open data per innovare il Paese

Alla fine gli Open Data sono quindi fuffa? No, non credo questo. Gli Open Data non solo sono importanti, ma sono e saranno sempre più necessari sia all’economia che alla democrazia del Paese. Conosco e ho avuto modo di lavorare con aziende che usano Open Data in modo massiccio per il loro business (non sono però piccole o medie imprese manifatturiere). Sono aziende che proprio grazie all’offerta continua e disponibile di Open Data hanno cominciato a generare e a immettere sul mercato prodotti e servizi all’avanguardia.

Molto però, come abbiamo avuto modo di dire in tante occasioni, dipende dall’offerta di dati, da come questi vengono prodotti, dai processi della pubblica amministrazione che li generano (troppo spesso sono ancora dati artigianali, fatti “a mano”, che non vengono generati da processi automatici). E produrre dati di qualità non è una cosa che può essere lasciata all’improvvisazione, cosa che ha caratterizzato in modo pesante e determinante la produzione Open Data specie degli enti locali. Serve “industrializzare” la produzione di Open Data. La PA che diventa una “fabbrica” di dati. Magari pochi ma buoni. Servono però competenze, tecnologie e servono standard di riferimento.

Su questo aspetto è da lodare lo sforzo di Agid per arrivare a definire ontologie e vocabolari controllati per la PA. Sono importanti per poter ricomporre in modo agevole il nostro vaso di coccio partendo da frammenti che non sono più di forma qualunque ma che vengono invece standardizzati.

Ma credo che alla fine di tutto, il fattore determinante sia l’assenza cronica di una vera governance e una strategia chiara sui dati pubblici. Tante PA, specie gli enti locali, fanno quello che riescono a fare. Lo fanno come possono e quando possono.  Le imprese, forse, hanno bisogno di qualcosa di diverso.

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