l'analisi del decreto

Semplificazioni, così non innoviamo la PA. Mochi: “Ecco le quattro mosse che mancano ancora”

L’innovazione non si fa con le norme o visioni strategiche. Ma con paziente costruzione di percorsi di cambiamento, di attenzione e accompagnamento, di cassette degli attrezzi e di formazione, di empowerment delle organizzazioni e di engagement delle persone. Ecco cosa non doveva esserci e cosa manca nel dl Semplificazioni

Pubblicato il 03 Ago 2020

italia digitale

Il decreto-legge 76 del 2020, il cosiddetto decreto Semplificazioni, che ho letto con grande attenzione e diligenza, contiene molte parti interessanti che meriterebbero un approfondimento, ma in particolare in questo contributo mi soffermerò su quella parte non piccola del testo che si occupa di rendere più veloce e soprattutto più stabile la transizione al digitale della pubblica amministrazione.

Non entrerò nei dettagli tecnici dei singoli articoli: lo hanno già fatto egregiamente Giovanni Manca e altri autorevoli commentatori di Agendadigitale.eu e sarebbe scortese e inutile un duplicato. Partirò invece da un punto di vista completamente diverso.

L’analisi (che manca) dei fallimenti precedenti

Quando si imposta una riforma così ambiziosa, che si propone di raggiungere, dopo tanti tentativi falliti, l’obiettivo di una pubblica amministrazione effettivamente digitale, forse la prima cosa che sarebbe opportuno chiedersi è perché gli altri tentativi, le altre riforme, le altre complesse normative non hanno funzionato o hanno prodotto risultati così al di sotto delle aspettative. Questa riflessione pare mancare completamente anche questa volta nel bagaglio del legislatore.

Perché neanche questa volta siamo partiti da un’analisi oggettiva ed onesta dei fallimenti precedenti? Perché ci siamo imbarcati in una nuova e complessa azione di rinnovello di un codice dell’amministrazione digitale, che ha già visto troppi stravolgimenti nei suoi oltre 15 anni di vita, ma che risulta ancora non attuato nei suoi principi fondamentali che attengono ai diritti dei cittadini e che non per caso sono legificati qui ancora una volta? Io credo che per capirlo, dobbiamo rifarci al concetto espresso molto bene dallo psicologo israeliano Daniel Kahneman nel suo volume “Pensieri lenti e veloci”[1] ossia alla “euristica dell’affetto”.

L’euristica dell’affetto è quell’atteggiamento che ci porta a ritenere probabile o a scegliere una soluzione o un’alternativa non sulla base di oggettivi dati, non sulla base delle esperienze passate, ma sulla base delle nostre emozioni, dei nostri desideri, delle nostre competenze. È qualcosa di simile al teorema del lampione, citando questa volta l’economista francese Jean-Paul Fitoussi[2], ossia quell’atteggiamento che ci fa cercare le chiavi sotto la luce e non dove le avevamo effettivamente perse. Così ancora una volta affrontiamo il problema della semplificazione della burocrazia affidandolo agli uffici legislativi, che non possono che coltivare l’illusione che una nuova legge magari migliore, magari più innovativa, magari più completa possa essere lo strumento adeguato a cambiare la PA.

Mentre ancora sono da applicare molte parti delle riforme precedenti, persino nei loro principi da tutti condivisi, si costruisce così un altro provvedimento. Ma l’innovazione non si fa con le norme e neanche solo con le visioni strategiche: è questione di paziente costruzione di percorsi di cambiamento, di attenzione e accompagnamento, di cassette degli attrezzi e di formazione, di empowerment delle organizzazioni e di engagement delle persone.

Una riforma fatta di norme che rinnovellano altre norme, in una sorta di gioco delle scatole cinesi dove la forma diventa contenuto, non porta all’innovazione, ma è foriera di quella paralisi da sovrabbondanza normativa che è la condizione attuale di molte amministrazioni.

Decreto Semplificazioni: le mosse per cambiare la PA in 200 giorni (si può fare)

Tutto quello di cui non c’era bisogno nel decreto Semplificazioni

Partendo da questa convinzione affrontiamo allora il tema chiedendoci di cosa non avevamo bisogno per passare poi a chiederci cosa sarebbe stato necessario. Abbiamo già detto che non ci serviva una legge tanto meno il rinnovello di un codice che richiederà comunque un’altra risma di provvedimenti attuativi e l’impegno di una istituzione come l’Agid che appare, ora come ora, del tutto non adeguata all’obiettivo.

Ma probabilmente non ci servivano neanche le sanzioni ai dirigenti che non attuano la transizione al digitale e queste sanzioni sono tanto più inutili in quanto da una parte sono facilmente evitabili attraverso l’oggettiva constatazione di una carenza di risorse e soprattutto di competenze nell’amministrazione, dall’altra la loro misura al 30% della retribuzione di risultato, che mediamente è il 15% dello stipendio globale, appare del tutto ininfluente (la sanzione massima arriverebbe al 4,5%) perché sia un vero dissuasore a comportamenti omissivi.

Ho forti dubbi infine che in un provvedimento così ampio ed articolato sia opportuno indicare delle date precise per l’inizio di un processo. Una data entro cui attuare un’azione o raggiungere un risultato è fondamentale in un progetto ma questo provvedimento tutto è tranne che un progetto: mancano indicatori precisi di risultato, manca l’indicazione delle risorse assegnate manca l’attribuzione precisa dei compiti ai diversi soggetti. D’ altra parte un decreto-legge non è e non può essere un progetto, il progetto lo stiamo ancora aspettando con il piano triennale per l’informatica nella pubblica amministrazione 2020-2022, che annunciato a FORUM PA 2020, dovrà essere pubblicato, speriamo, nei prossimi giorni.

È altresì pericoloso introdurre scadenze precise anche perché, per quanto mi ricordi, non c’è stata una sola volta in cui siano state rispettate. Anche qui prende il sopravvento l’euristica dell’affetto: tutti noi vorremmo poter contare su tempi definiti, ma questo obiettivo non può essere raggiunto attraverso una norma.

Cosa è davvero necessario

Vediamo ora cosa invece è veramente necessario ora perché la transizione al digitale sia per la pubblica amministrazione una scelta definitiva che cambi non le norme, ma i processi e soprattutto i comportamenti. Parto da quello che è l’origine di tutti i problemi e che abbiamo citato ormai tante volte da essere venuto a noia anche a chi scrive: il tema della governance. Cito alla lettera il testo della audizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti al Senato proprio in merito a questo decreto-legge: “appare ormai più che auspicabile la previsione di una efficace formula organizzativa che assicuri il coordinamento delle azioni poste in essere da tutti i soggetti istituzionali a qualsiasi titolo coinvolti nello sviluppo dell’informatica pubblica. Tuttavia, la necessità di dover tornare spesso, attraverso ripetuti interventi legislativi sul tema della governance, segnala le oggettive difficoltà di registrare progressi significativi nella risoluzione delle criticità poste dal coordinamento dei soggetti coinvolti, competenze, risorse e modelli organizzativi”.

In parole povere, il testo della Corte dei Conti ci dice quanto siamo ancora lontani da un effettivo coordinamento unitario degli sforzi per la pubblica amministrazione digitale. Partendo da questo peccato originale andiamo ora a vedere le cose che a mio parere è necessario portare avanti perché questa volta non affrontiamo un nuovo fallimento.

Chiarezza nelle decisioni strategiche sull’infrastruttura

Il primo punto riguarda la chiarezza nelle decisioni strategiche che riguardano la infrastruttura tecnologica del paese. La mia riflessione parte dall’articolo 35 del decreto-legge che ha un titolo che somiglia più a grida di manzoniana memoria che a un effettivo obiettivo di governo “consolidamento e razionalizzazione delle infrastrutture digitali del paese”. Ne abbiamo parlato tantissime volte e Luca Attias appena divenuto commissario straordinario del team digitale dichiarò che saremmo passati dagli 11.000 data center a sette centri nazionali.

Successivamente la strategia di governo propose nel piano triennale la costituzione di poli strategici nazionali che avrebbero assorbito i tanti data center non adeguati. Si parlò anche questa volta di un numero molto contenuto che sarebbero stati comunque gestiti da una struttura centrale. In questo articolo del decreto di poli strategici nazionali non si parla più, ma, attraverso una formulazione del tutto incomprensibile, fatta di continui rimandi ad altri provvedimenti legislativi (solo in questo articolo contiamo 15 rimandi normativi, alla faccia della chiarezza delle leggi), si capisce che le amministrazioni sia centrali che locali potranno mantenere i propri data center purché siano rispondenti ai requisiti di un regolamento che ancora deve vedere la luce.

Le pubbliche amministrazioni centrali, e solo loro a quanto pare, potranno migrare i propri servizi verso soluzioni cloud nel rispetto di quanto previsto dal suddetto emanando regolamento. Solo le amministrazioni che hanno data center non rispondenti ai requisiti previsti dal regolamento saranno obbligate a migrare i loro centri per l’elaborazione delle informazioni e i relativi sistemi informatici verso un’infrastruttura che viene descritta al primo comma di questo articolo 35 come “una infrastruttura ad alta affidabilità localizzata sul territorio nazionale per la razionalizzazione ed il consolidamento dei ced e destinata a tutte le pubbliche amministrazioni.” Ecco un chiaro esempio di una strategia che avrebbe bisogno di chiarezza, di pochi provvedimenti coraggiosi, di rispetto per la responsabilità e l’autonomia delle unità operative della PA, ma in un quadro chiaro e definito una volta per tutte.

Definizione dei ruoli tra pubblico e mercato

Passando ad un secondo punto abbiamo bisogno di una limpida definizione dei ruoli tra pubblico e mercato e un ripensamento dei modelli di procurement. Lo stesso decreto-legge 76/2020 dedica tutto il primo capo del primo titolo alla “semplificazione in materia di contratti pubblici”, ma ha scelto una strada solo in parte condivisibile, ossia di evitare il problema invece che cercare di risolverlo. Mi spiego: dal mio punto di vista l’ingorgo burocratico non sta nel dover indire una gara, ma nelle regole per farla.

  • Aspettiamo da anni strumenti quali la Banca Dati degli Operatori Economici (BDOE) per poter snellire radicalmente le procedure e gli impegni;
  • abbiamo bisogno di portare davvero a termine la drastica riduzione e la concomitante riqualificazione delle stazioni appaltanti;
  • dobbiamo rivedere da capo alcuni punti del Codice degli appalti che non vanno d’accordo con le strategie della trasformazione digitale;
  • dobbiamo incentivare al massimo tutte le forme di procurement innovativo così tante volte citate nei convegni, ma così poco attuate; dobbiamo rivedere, seguendo le indicazioni che ci vengono dalla Commissione europea, le regole per il subappalto;
  • dobbiamo rivedere la composizione delle commissioni aggiudicatrici; dobbiamo istituire finalmente chiari meccanismi di ranking reputazionale per i fornitori.

L’innalzamento della soglia degli affidamenti diretti è opportuno ed utile in un contesto caratterizzato da queste riforme e da una semplificazione radicale dello strumento delle gare pubbliche.

Abolire le gare può sembrare tagliare il nodo gordiano con la spada, ma in realtà lascia gli ostacoli lì dove sono e ci permette solo, momentaneamente, di aggirarli.

Accompagnare le amministrazioni sulla strada della trasformazione digitale

Un terzo punto è forse quello più importante ed è dato dalla necessità di accompagnare le amministrazioni sulla strada della trasformazione digitale con cura e anche qui con chiarezza negli obiettivi, nei tempi e nelle risorse.

Nelle raccomandazioni per il Governo lasciate quasi due anni fa, alla fine del suo incarico di Commissario straordinario, Diego Piacentini ha proposto di: “formare un team dedicato all’implementazione della trasformazione digitale della pubblica amministrazione e alla sua esecuzione sul territorio, in affiancamento e a supporto delle amministrazioni centrali, locali e ai fornitori di tecnologia. Una prima stima è di 510 esperti di tecnologia e di processi industriali di cambiamento (di cui indicativamente 115 all’interno del team centrale, 105 in assegnazione alle PA centrali che vengono coinvolte nella gestione dei progetti lanciati dal Team e 290 sul territorio in affiancamento alle amministrazioni centrali, locali e ai fornitori di tecnologia). Questo tipo di qualifica è riscontrabile raramente nei dipendenti della PA”.

La scelta dei Governi succedutisi da allora è stata diversa, ma la necessità di affiancare le amministrazioni nel percorso verso la trasformazione digitale non con giuristi né con norme, ma con “esperti di tecnologia di processi industriali di cambiamento” è, a mio parere ancora del tutto valida. Un accompagnamento che parta anche dalla constatazione banale, ma sempre dimenticata, che il cambiamento costa e che quindi leggere ancora, come facciamo ahimè anche in questo decreto-legge, che si deve operare “senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica” è non solo deprimente, ma anche disorientante. Anche qui il punto non è la quantità dei soldi a disposizione che, tutto sommato, probabilmente ci sono, ma la chiarezza nell’assegnazione delle risorse e negli obiettivi che queste risorse devono garantire.

Il nodo della formazione

Quarto punto, last but not least, è la realizzazione di una robusta, pervasiva ed efficace azione di formazione relativa sia alle competenze digitali sia alle competenze organizzative, indispensabili come le prime. Una formazione che si avvalga di strutture pubbliche e private secondo un piano definito dal Governo sulla base del Syllabus. La formazione nel pubblico impiego è stata ridotta per un lungo periodo, a cominciare da quel decreto che l’additò, assieme alle spese di comunicazione e a quelle per consulenza, come una sorta di “spreco” e impose una riduzione del 50% dell’investimento.

Ora, almeno per gli enti locai e le regioni, tale limite è stato finalmente rimosso, come ci ha annunciato nel FORUM PA 2020 di luglio la stessa Ministra della PA Fabiana Dadone, e gli Enti Centrali possono usare la SNA. Purtroppo, però tutte le ricerche sul campo testimoniano ancora una carenza importante di formazione in tutto il pubblico impiego, che diventa drammatica in alcuni settori, come ad esempio i Ministeri. Quella poca che si fa riguarda poi quasi esclusivamente adempimenti di legge e addestramento ala compliance su temi specifici, importanti sì, ma certo non forieri d’innovazione come la sicurezza, la privacy, l’anticorruzione.

La formazione non può essere vista come un addendum alla gestione delle amministrazioni, ma ne è invece un elemento fondamentale che determina la qualità dell’azione amministrativa, ma anche il benessere organizzativo dei dipendenti e delle unità operative. Imparare continuamente non è solo una necessità per ogni organizzazione, ma è anche, in una società in costante e rapido mutamento, un diritto per ogni lavoratore e una garanzia di attirare nel lavoro pubblico i migliori e di essere capaci di trattenerli.
Ma la formazione efficace richiede non solo risorse e programmazione, ma anche una chiara identificazione degli obiettivi in tema sia di competenze disciplinari e organizzative e una costante valutazione del suo impatto, l’utilizzazione reale, nell’ambito dell’organizzazione, delle competenze apprese, una focalizzazione sulle missioni dell’ente o della filiera amministrativa.

Conclusioni

Chiarezza nelle scelte strategiche sulle infrastrutture, radicale chiarimento nel rapporto tra pubblico e mercato, accompagnamento attento costante ed efficace delle amministrazioni e formazione possono essere il poker d’assi per vincere la partita e per non doverci trovare ancora una volta a girare la testa dall’altra parte di fronte ad un totale o parziale fallimento.

Ora i soldi ci sono, i progetti anche, la responsabilità politica è chiara: sbagliare sarebbe imperdonabile.

___________________________________________________________________________

  1. Kahneman, Daniel. Pensieri lenti e veloci (Saggi) (Italian Edition). MONDADORI. Edizione del Kindle, 2017
  2. “Jean Paul Fitoussi. Il teorema del lampione. Giulio Einaudi editore. 2013

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