Molti gli aspetti non certo entusiasmanti emersi dal DESI 2019 (Digital Economy and Society Index) per il nostro Paese, che in questo giugno 2019, come per la pagella dello scolaro svogliato, incassa una nuova bocciatura, per altro non certo inaspettata.
Tra i dati che più colpiscono tra quelli emersi dall’indice composito realizzato per conto della Commissione Europea per tracciare le performance digitali dei 28 paesi dell’Unione, un desolante penultimo posto per livello di utilizzo dei servizi digitali della PA. Eppure, come certifica la stessa Ue, i servizi pubblici online sono disponibili. Di chi (o di cosa) è, allora, la colpa?
Difficile a dirsi: quel che è certo è che le parole chiave, quelle sulle quali bisognerebbe intervenire per invertire la rotta sono due: design e cultura.
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Digitale, Italia a fondo classifica
Il DESI prende in considerazione cinque dimensioni, connettività, capitale umano, uso dei servizi internet, tecnologie digitali nel business, uso dei servizi pubblici digitali e per ognuna definisce dei parametri di valutazione che arrivano ad interessanti dettagli.
Tra i servizi pubblici digitali, per esempio, oltre ai servizi nazionali come quelli esposti da Agenzia delle Entrate o da INPS gli indicatori analizzano anche le performance digitali di 20 capoluoghi di provincia e valutano, con una decina di parametri, anche micro servizi come la possibilità di ottenere i permessi di sosta o di poter caricare la documentazione in formato elettronico quando richiesta, facendo dell’indice uno strumento abbastanza sofisticato.
L’Italia, come direbbe un severo insegnante, è intelligente ma non si applica. Certo in qualche indicatore abbiamo recuperato, sulla media generale saliamo di una posizione, ma è più merito della revisione di alcuni parametri della valutazione che di qualche effettivo cambiamento nello stato delle cose, con i nuovi criteri di calcolo infatti ci riposizioniamo allo stesso modo anche nella classifica 2018.
Certo, gli indici sono sempre imprecisi o “relativi”, e il ricalcolo con i nuovi indicatori che ci fa guadagnare una posizione, da quartultimi a quintultimi, ne è la conferma, ma resta indiscutibile che da qualsiasi lato o parametro si guardi la questione della digitalizzazione del paese il risultato è che l’Italia boccheggia a fine classifica in compagnia di Polonia, Grecia, Romania e Bulgaria. Il gruppetto degli ultimi della classe che però, a prima vista, sembrerebbero i meno dotati e non i nostri compagni di banco naturali, essendo noi pur sempre la terza economia dell’area Euro.
Di chi è la colpa?
Come sempre, in particolare nel nostro paese, al verificarsi di qualsiasi fenomeno negativo si scatena la caccia al responsabile, il solo su cui addossare la colpa, così, anche in questo caso, di volta in volta, possiamo vedere messi sotto accusa, la scarsa alfabetizzazione digitale della popolazione, il ginepraio di norme, regole e leggi che incatena la nostra azione innovativa, la mancanza di professionalità del digitale o, ancora, l’azione poco determinata degli organi preposti all’attuazione dell’agenda digitale, in una liturgia di scuse per niente stimolante o utile al superamento dello stallo che fa assumere alla nostra condizione le caratteristiche di una vera e propria emergenza.
L’ennesima emergenza cronica, con tanto di commissario straordinario da cui ci si aspetta che con un’azione personale da fuoriclasse riesca ad invertire da solo il corso delle cose e che trasformarmi d’improvviso questo bruco in farfalla multicolore.
A mio giudizio gli attori incaricati dell’attuazione dell’Agenda Digitale stanno svolgendo un lavoro efficace e di qualità, compresi i commissari, sia il precedente sia l’attuale, che effettivamente hanno dimostrato la stoffa dei fuoriclasse e la rotta sembra tracciata, ma il contesto in cui operano è veramente vasto e la trasformazione è un affare di tutto il sistema non solo della sua componente amministrativa e coinvolge di conseguenza tutti i settori, istruzione, sanità, economia e finanza, giustizia, industria e la società tutta.
I protagonisti della quarta rivoluzione industriale
La trasformazione è pervasiva a tutto il sistema, siamo infatti nel bel mezzo di uno di quei periodi storici che saranno registrati con l’etichetta “rivoluzione” e, precisamente, stiamo attraversando la quarta rivoluzione industriale, come ha sancito Klaus Schwab, fondatore e presidente del World Economic Forum, e la parola rivoluzione deve far pensare a qualcosa di traumatico che lascerà sul terreno vittime. Le rivoluzioni hanno contrasti forti, perché qualcosa di nuovo prosperi dovrà farsi spazio a spese di qualcosa di vecchio e il nostro paese, ad occhio e croce, si sta candidando per essere la vittima.
E’ necessario imprimere un cambiamento e adeguarsi al ritmo di questa quarta rivoluzione che sembra essere molto più frenetico di quanto lo sia stato nelle precedenti e sembra investire più aree della nostra vita perché non è frutto di una singola invenzione ma di un ribollire di cambiamenti in numerosi settori.
Questa quarta rivoluzione ha già dei paesi protagonisti e lascia intuire quale potrà essere l’assetto delle forze internazionali nel prossimo futuro, Stati Uniti e Cina hanno le imprese che guadagnano più posizioni nel mercato e, nemmeno a dirlo, la crescita è tutta a trazione tecnologica. Le prime 6 imprese per aumento della capitalizzazione al mondo, Amazon (USA) Tencent (Cina) Alibaba (Cina) Microsoft (USA) Alphabet (USA) Apple (USA) sono infatti tutte nel settore delle tecnologie e sono legate al digitale, come Nvidia, Intel, Netflix che seguono a breve distanza tra i primi 20, componendo il quadro che vede gli Stati Uniti al comando seguito dalla Cina e facendo di quello tecnologico il primo settore industriale in assoluto per incremento della capitalizzazione. [Global Top 100 companies by market capitalisation marzo 2018 PWC)
Il ruolo marginale dell’Europa in ambito tecnologico
L’Europa in questi mercati ha un ruolo decisamente marginale dipendendo totalmente per la sua economia digitale dalle potenze estere e quindi l’azione politica nell’incentivare questo settore è fondamentale e urgente, non solo per dare efficienza alla gestione della cosa pubblica, che deve essere innovata per sostenere la crescita e generare risparmio, ma anche per contribuire all’affermarsi della cultura della Trasformazione Digitale in tutti i settori e a tutti i livelli della nostra società.
Da questo punto di vista la posizione dell’Unione è chiara, anche nel documento di sintesi della nuova agenda strategica dell’UE pubblicato dal Consiglio europeo il 9 maggio, tra i soli 4 punti che descrivono la direzione del prossimo ciclo istituzionale 2019-2024 alla voce sviluppo economico è indicato tra gli obiettivi dell’azione politica un perentorio ed eloquente “Accogliere appieno la transizione digitale”.
Ma assieme ad altri temi primari per l’Unione, rimasti invece ai margini della nostra azione politica nazionale, come ad esempio l’attenzione crescente all’ambiente e all’inclusività e alla riduzione delle disparità, la trasformazione digitale prosegue a singhiozzo in modo disomogeneo e senza la capacità di incidere nella nostra economia e società.
Ancora nel 2019 il settore del commercio fatica a capire la trasformazione del settore scatenata dall’e-commerce e le relative opportunità e i rischi, solo il 10% delle imprese, leggiamo nel capitolo relativo alle “tecnologie digitali nel business” del DESI, vende online, mercato che vale soltanto l’8% dei loro ricavi, la PMI non metabolizza i nuovi modelli di business legati al digitale, le metodologie agili, o i principi del design thinking per rinnovare i propri prodotti e servizi e non offre alcuna attrattiva per i già pochissimi specialisti del settore IT, contribuendo, assieme ai fattori culturali e sociali come vedremo dopo, all’asfissia del mercato del lavoro legato alle tecnologie.
Italia penultima nella sezione “capitale umano”
Nella sezione dedicata al “capitale umano” come lo definisce l’indice, in cui occupiamo la penultima posizione, si certifica che abbiamo la percentuale più bassa di laureati in discipline IT e di insegnanti che abbiano frequentato corsi di alfabetizzazione digitale. Indicativo è il fatto che poco più della metà dei dottorati relativi al piano impresa 4.0, finanziati e sostenuti dal governo siano effettivamente divenuti disponibili.
L’indice sul capitale umano segna dati sconfortanti sia sulle competenze superiori sia sulle competenze di base, per le quali più della metà della popolazione evidenzia carenze fino a registrare che il 30% degli italiani adulti non utilizza regolarmente internet. E questi dati si riflettono negativamente e in modo diretto anche sulla possibile innovazione in chiave digital all’interno delle nostre aziende per le quali è difficile reperire nel mercato del lavoro personale qualificato.
Il gap tra domanda e offerta: il nodo della formazione
L’osservatorio delle competenze digitali 2018 (redatto da tutte le associazioni di settore in collaborazione con Miur e Agid) riporta i numeri di una vera e propria emergenza occupazionale del settore IT, pochissimi laureati per soddisfare la domanda di impiego nei ruoli della trasformazione digitale e pochi iscritti alle facoltà legate all’informatica. Il gap fra domanda e offerta è nei numeri che vedono nel 2018 un fabbisogno delle aziende tra le 13.000 e le 20.000 figure, mentre l’Università dovrebbe laurearne circa 8.000 e non esistono ancora corsi di laurea specialistici in discipline come Data Science, Big Data e Cyber security.
Il mondo dell’istruzione e della formazione quindi non prepara per le professioni del digitale. Sono stimate in 180 le figure professionali legate al digitale tra profili tecnici e manageriali anche di alto livello, e in Italia sono in gran parte assenti sia per quanto riguarda i profili adatti a ricoprire questi ruoli sia per la reale offerta del mercato del lavoro, in un circolo vizioso dai contorni allarmanti, visti i lunghi tempi richiesti per un’inversione di rotta e i tempi rapidissimi della trasformazione in corso, e in questo scenario con evidenze macroscopiche l’azione del governo sposa la linea dell’assistenzialismo anziché della rivitalizzazione di un mercato del lavoro strategico per la crescita economica.
Perché gli italiani non interagiscono con la PA online
In questo contesto non stupisce che anche l’indicatore che descrive lo stato dei “servizi pubblici digitali” a fronte di un dato apparentemente confortante, siamo diciottesimi quasi in media con la tendenza dei 28 per loro disponibilità, mostri invece uno sconfortante penultimo posto per l’utilizzo effettivo. I cittadini Italiani non interagiscono con la Pubblica Amministrazione online (fa peggio solo la Grecia) e sembrerebbe una conseguenza ovvia dato il quadro di analfabetismo digitale dipinto fino a qui. Ma attenzione, questo non è l’unico motivo, visto che gli indicatori mostrano che le transazioni online hanno ottenuto incrementi significativi e a volte inaspettati quando si tratta di servizi realizzati con i principi del Design e che permettono di concludere l’intero iter del procedimento online o, ancora, che riguardano servizi di uso frequente e di interesse reale per il cittadino.
La questione è che troppo spesso i servizi non vengono riprogettati con le modalità proprie della trasformazione digitale, ben descritte e supportate anche dai materiali del team digitale, che li renderebbero utilizzabili e di conseguenza utilizzati e i processi interni agli enti non vengono rivisti realizzando effettivamente la digitalizzazione dell’intero servizio che quindi si interrompe prima di essere concluso.
Anche all’interno degli Enti, in particolare gli Enti locali, riscontriamo la carenza di personale tecnico e manageriale che abbia percezione del valore della trasformazione digitale e la sappia governare e, infatti, questo emerge anche nel DESI che analizza i servizi di 20 comuni italiani dove si misura la debolezza delle azioni intraprese dalle amministrazioni locali relative ai servizi on line per il cittadino e al reale impatto che queste hanno nella nostra quotidianità.
Bene su open data e servizi medici, ma manca la cultura del digitale
La sintesi ufficiale del DESI dedicata al nostro paese tenta un incipit ottimistico registrando i progressi in materia di connettività e sottolineando l’ottima quarta posizione per disponibilità di Open Data assieme alla buona disponibilità dei servizi medici digitali ormai ben consolidati, ma tende a giustificare la scarsa domanda come causa della scarsa offerta per i servizi digitali della PMI e della Pubblica Amministrazione mentre la debolezza degli effetti della digital transformation sono più sistemici e generalizzati. Il dato vero è che manca la cultura del digitale a tutti i livelli, cultura del digitale che, non smetteremo mai di ripeterlo, porta con se moltissimi valori sociali, di trasparenza, inclusività, diritti, accessibilità, efficienza, apertura, onestà e dialogo, rapporto paritario tra stato e cittadini, innovazione rivolta al benessere delle persone, spesso associata al miglioramento dell’ambiente e all’attenzione alla qualità della vita in generale.
Gender gap e inclusione delle donne
Un paese in cui l’emergenza dell’impiego giovanile contrapposta alla domanda di specialisti IT ci vede fuori dall’alleanza per le competenze e l’occupazione del settore digital (la “Coalizione per le competenze digitali”, operativa dal 2016, è una delle 10 azioni chiave dell’agenda per le competenze per l’Europa che unisce gli interessi del settore pubblico e privato negli stati membri per sviluppare talenti digitali) o che vede i centri di competenza ad alta specializzazione sostenuti dal governo impantanarsi nelle lunghe procedure amministrative e nei ricorsi giudiziari appare in evidente contrasto con i valori della trasformazione digitale.
Da questa angolazione va letto anche un nuovo indicatore introdotto con il DESI 2019 il Women in Digital Scorebord che fotografa il gender gap e l’inclusione delle donne (visti i nostri risultati sarebbe meglio dire esclusione) sia nell’accesso ai servizi sia nel loro impiego nel settore.
Se la rivoluzione digitale è anche una rivoluzione culturale, dobbiamo riflettere anche sul fatto che quasi 3 donne su dieci non hanno mai usato internet, solo il 39% ha utilizzato servizi di Online Banking, appena il 17% ha competenze digitali superiori e, in generale, siamo al ventiseiesimo posto sui ventotto per competenze nell’uso di internet da parte delle donne e anche i numeri relativi al mondo del lavoro riflettono questa esclusione di genere con appena l’1% di donne impegnate in ruoti ICT.
E a conferma della reciprocità tra tessuto sociale e culturale e digitalizzazione la presentazione del rapporto Women in Digital Scorebord non può far altro che osservare la correlazione tra le performance dei paesi in termini di Digitale e il ruolo della donna nel settore.
“There is a strong correlation between the Women in Digital Index and the Digital Economy and Society Index. EU Member States who lead in digital competitiveness are also leaders in women in digital”.
Insomma cultura di genere e cultura in genere vanno alla pari anche nel digitale.