L’Italia investe in Ict il 3.28% del Pil contro il 5.95% del Regno Unito, il 4.09% della Germania, il 4.01% della Francia. Mancano all’appello 430 milioni di investimenti annui in startup e hi-tech per agganciare la media UE. Ma senza digitale non c’è crescita. Per questo serve un ribaltamento nel concetto stesso di “investimento” pubblico.
Un tema portato alla ribalta da ForumPA: l’evento rappresenta ogni anno un’utile occasione di incontro e confronto in una piattezza culturale che deprime ogni slancio all’interno delle amministrazioni pubbliche. In altre parole, se c’è una occasione durante la quale i centri di policy pubblici vengono stimolati a rivedere le proprie convinzioni e impostazioni concettuali, questa è proprio il Forum.
Quest’anno è stato di particolare interesse, da questo punto di vista, il convegno organizzato dal DIPE, il Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei ministri che funge da segreteria del CIPE e da cabina di regia degli investimenti pubblici, in quanto gestore del Fondo Sviluppo e Coesione; quest’ultimo è il grande “portafogli” pubblico nazionale, che costituisce il complemento a una delle strategie di investimento e coesione territoriale che ogni Stato membro dell’Unione Europea deve assicurare ai fini del raggiungimento degli obiettivi comunitari di crescita e inclusione sociale (ovvero, i due corni dello sviluppo).
Il “trabocchetto” di Industria 4.0
Il concetto stesso di investimento cambia, infatti, nel tempo, ed è al centro in questi anni di una vorticosa evoluzione, proprio in riferimento alle trasformazioni tecnologiche in atto. È il caso di ribadire posizioni ormai assodate e già note, ma troppo spesso dimenticate nella formulazione degli interventi di politiche pubbliche.
Innanzitutto, è risibile considerare “investimenti” certi rifacimenti di marciapiedi e stazioni di sosta in Comuni in spopolamento da decenni. Questo era chiarissimo già a inizio del Novecento nella mente di uno dei più brillanti e innovatori studiosi e uomini di governo del tempo, Francesco Saverio Nitti, che sulla follia collettiva di certe strade ferrate e ponti e cattedrali nel deserto ci ha lasciato pagine memorabili. E dovrebbe esserlo tanto più oggi.
L’età che viviamo è infatti quella della cosiddetta “finanza d’impatto”, che distingue tra spesa corrente e spesa di investimento non in base alla tangibilità o meno di un manufatto, ma dal risultato in termini di sostenibilità e profittabilità di una spesa nei termini delle sue conseguenze a regime.
Non ragionare così porta a quel vero e proprio assurdo creato perfino dalle più recenti misure definite “Industria 4.0”: denominazione altisonante, che però cela il trabocchetto in base al quale un viaggiatore di commercio che cambia l’automobile (bene durevole, da portare “a patrimonio” nei conti aziendali e fiscali, ma quantomeno discutibile come strumento di avanzamento civile ed economico) può usufruire dei relativi sgravi fiscali, mentre una impresa che va sul cloud, dovendo pagare un canone (per sua natura ricorrente) fa una spesa “corrente” e pertanto non detraibile. Addirittura, la stessa impresa potrebbe valersi del beneficio se comprasse un vetusto server in cluster di 15 anni fa, mentre non può farlo se usa il cloud.
Una “disruption” anche per gli investimenti
Dopo la rivoluzione tecnologica e a causa degli avanzamenti della stessa non sono solo cose e abitudini a dover cambiare: sono gli stessi concetti ad aver bisogno di essere stravolti, se si vogliono evitare esiti paradossali. Né la Commissione Europea, per tanti versi benemerita con le sue regole e i suoi tempi-tagliola dei Fondi Strutturali, né il CIPE stesso, e non certo per colpe individuali dei singoli, fino ad oggi paiono aver fatto davvero il salto di qualità che le considerazioni appena esposte paiono dover implicare.
E proprio qui è risultato estremamente interessante il convegno del Forum PA dianzi citato, e soprattutto la relazione che in apertura dello stesso ha svolto Andrea Rangone. La sua relazione ha stravolto il panorama mentale degli “addetti ai lavori” delle classiche cabine di regia degli investimenti pubblici. I dati che ha fornito hanno tratteggiato una mappa che dimostra chiaramente la correlazione tra maturità digitale dei diversi Paesi e loro PIL pro capite; come anche quella tra imprenditorialità high tech e PIL pro capite. Insomma, continuiamo pure a finanziare muri, rotatorie, tetti, marciapiedi, se è questo che chiedono le classi dirigenti locali; ma, almeno, non aspettiamoci né crescita economica né progressi nell’inclusione sociale.
La banale verità snocciolata da Rangone al Forum davanti ai decisori di queste politiche, presente anche il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti, è che si cresce, di fatto, solo col digitale.
Crescita digitale contro soft law
A chi da anni cerca, dall’interno delle amministrazioni pubbliche, di rinnovare patrimonio informativo comune, concettualizzazioni, cultura e strumenti, questi dati non suonavano nuovi; semmai, venivano alla mente le tante contorsioni giuridiche, gli ostacoli di un diritto amministrativo rimasto al paleolitico, la “paura della firma” di una burocrazia ridotta sulle difensive da certi attivismi giudiziari delle procure, dal “cantonismo” della cosiddetta soft law (non di rado affezionata a pregiudizi stantii superati anche dal Consiglio di Stato), dalle classificazioni divenute paradossali di una contabilità di Stato ormai inconciliabile con la realtà.
In questo panorama, che si debba aspettare il prossimo Forum PA per discutere con i non pochi Rangone di questo Paese, che manchino sedi e occasioni di virtuoso trasparente confronto tra dirigenze pubbliche e politica nella formulazione degli indirizzi e degli strumenti, che, girata pagina dell’agenda dopo quella settimana, si debba ricominciare a discutere di assurdità con controllori della spesa rimasti all’età elisabettiana è cosa difficile da mandare giù.