Le ultime inchieste su testate come l’Espresso e Internazionale (esemplare qui l’approfondimento sulle condizioni di lavoro di uno stabilimento di logistica di Stradella) hanno messo in evidenza come dietro lo sviluppo dell’e-commerce si stia procedendo verso una rapida regressione della qualità del lavoro.
E non è un caso che questo non figuri tra i temi della trasformazione digitale che riscuotono maggiore attenzione come la presenza di adeguata connettività, l’accesso alla rete da parte dei cittadini, le modalità necessarie per il cambiamento dei processi nella Pubblica Amministrazione, la disponibilità e l’usabilità dei servizi digitali pubblici e privati, la capacità delle imprese di utilizzare il digitale nel loro business.
Meno o quasi nulla si dedica a un tema di base: con quale modello di lavoro tutto questo si realizza? E quindi, come lo sviluppo del digitale migliora la qualità della vita dei cittadini, visti non solo come fruitori dei servizi ma anche come lavoratori?
Il tema è fondamentale, a mio avviso, perché connota anche la qualità dello sviluppo, ed è quindi parte integrante del contesto della trasformazione digitale, e della questione, più generale “dell’etica digitale”, intesa anche come qualità delle scelte e di indirizzo della ricerca.
Un tema che si può declinare su due versanti: dell’organizzazione dei lavori ad alto contenuto di conoscenza e dell’organizzazione dei lavori preordinati in ambiti specifici, come la logistica.
Qualità del lavoro, smart working, precarizzazione digitale
Anni fa avevo cercato di porre questo come uno dei temi di base dell’innovazione, intesa come cambiamento reale culturale ma anche in termini di ripensamento del tempo e dello spazio delle città e dei suoi abitanti.
I lavori ad alta intensità di conoscenza, sempre più centrali in una società che beneficia al massimo delle opportunità delle tecnologie, sono lavori in cui la componente di creatività e di autonomia è sempre più importante e preponderante.
Prendere atto di questo significa pensare ad un cambiamento profondo della regolamentazione del lavoro per questo nuovo lavoratore, sostanzialmente nomade nelle modalità, nei luoghi e nei tempi, e portato alla migrazione tra forme diverse di occupazione (subordinata, indipendente/free lance, imprenditoriale) senza privilegiarne nessuna in modo pregiudiziale se non sulla base della condizione del momento.
Per i lavoratori subordinati è sempre più importante, da questo punto di vista, l’affermazione dello smart working come modalità di lavoro, agile, che massimizza l’orientamento al risultato e, allo stesso tempo, consente di vivere la città secondo prassi non massificate. Non a caso questo è anche uno dei pilastri della “demobilizzazione”, forse purtroppo una delle strategie più trascurate del contesto smart city.
Smart working significa disporre spazio e tempi in funzione dell’obiettivo che si deve raggiungere, e non di un vincolo a priori assoluto e incurante della specifica attività da svolgere. In pratica, ciò che fa la differenza tra un’organizzazione ingessata e tayloristica e un’organizzazione evoluta e capace di sviluppare il potenziale dei propri componenti. Tra un’organizzazione in cui il cambiamento è nativamente intrappolato e una in cui sono presenti le condizioni per dispiegarlo. E oggi (secondo la ricerca dell’osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano) solo il 7% dei dipendenti è coinvolto in un progetto di smart working, con un incremento del 2% in 3 anni (quasi tutto sulle aziende di grandi dimensioni e in maniera trascurabile su PA e Pmi). Una progressione che non lascia ben sperare su un suo rapido sviluppo a meno di interventi di spinta e sostegno anche da parte delle amministrazioni (per l’adozione al loro interno e come supporto all’adozione da parte delle imprese).
Per i lavoratori non subordinati il tema del “quale modello del lavoro” diventa ancor più vitale.
Infatti, una regolamentazione organica per tutte queste forme di lavoro in cui si supera la precarizzazione del lavoro della conoscenza e in cui si prevedono modalità di assistenza e garanzia di reddito nei passaggi tra lavoro subordinato e indipendente, con forme di assistenza universale che superino la dicotomia subordinato-indipendente.
Soprattutto per alcuni tratti caratteristici, più ancora di altre tipologie di lavoro, questa ha bisogno di un costante aggiornamento e di periodi di “ozio creativo”, di momenti di riflessione, di studio e di autoformazione che consentano quei cambiamenti di prospettiva e di definizione della propria offerta di competenza che sono fondamentali per il mantenimento di un potenziale competitivo da offrire alle organizzazioni e al mercato.
Dobbiamo pertanto pensare ad un modello del lavoro in cui al centro è il lavoratore e non il posto di lavoro, e le riforme del lavoro vanno solo in parte in questa direzione. Potrebbe essere efficace l’introduzione di una forma di “reddito minimo di cittadinanza”, tale da garantire comunque la possibilità di un reddito superiore alla soglia di povertà anche per chi vuole inserirsi nel mondo del lavoro, forse più di una forma di “flexsecurity” (che guarda più alle dinamiche dei lavoratori dipendenti e di chi già è inserito). Questo permetterebbe a molti giovani di sottrarsi al ricatto del lavoro malpagato, talvolta irregolare, e non sempre di qualità e contenuto adeguato. E permetterebbe a molti “lavoratori della conoscenza” di scegliere la forma di lavoro (dipendente o indipendente) soltanto in funzione delle aspettative contingenti di lavoro e di sviluppo. Lo sviluppo del lavoro ad alta intensità di conoscenza comporta, necessariamente, infatti, l’abbandono della logica del “posto di lavoro” e la sperimentazione di nuove attività e responsabilità secondo un rapporto di lavoro più orientato ai risultati e meno irrigidito dalle esigenze del controllo del tempo di lavoro. Cambiare il modello del lavoro, cambiare il modello delle tutele ai lavoratori: anche questi sono importanti tasselli delle politiche dell’innovazione.
L’e-commerce etico
Chi fa e promuove l’innovazione attraverso (anche) il digitale, chi pensa che spingere la diffusione dell’e-commerce sia importante per lo sviluppo socio-economico, credo sempre più che non possa ignorare con quale modello di lavoro tutto questo si realizza.
Se dietro lo sviluppo dell’acquisto online (in Italia ancora molto basso rispetto alla media europea) che si cerca di spingere come uno dei filoni più importanti della crescita digitale si dispiega un modello di lavoro che ripropone, di fatto, il cottimo e la prevalenza degli addetti dei “tempi e metodi” incaricati di misurare (in secondi) la prestazione del singolo operaio, allora c’è da riflettere sulla correlazione dei due fenomeni.
In altri termini, non è indifferente il modello di business e la strategia di guadagno di un’impresa rispetto al suo utilizzo dell’e-commerce. Se la sostenibilità economica del suo approccio digitale passa attraverso una riduzione della qualità del lavoro del suo personale (non sempre formalmente dipendente), allora è necessario costringerla a ricondursi a un contesto di sostenibilità sociale. Non possono esistere smart city basate sulla riduzione della qualità del lavoro e quindi della vita degli abitanti. E gli approcci che in quest’ottica possono essere definiti “non etici” devono essere sfavoriti, contrastati, combattuti, perché siano cambiati.
La crescita digitale, in questo senso, è frutto di un bilancio tra benefici e svantaggi, non solo economici ma anche sociali. La sua correlazione con il progresso sociale (misurato ad esempio con il Social Progress Index) non è automatica e deterministica, ma dipende dal tipo di scelte e di approcci che si intraprendono, dai modelli organizzativi e sociali che si mettono in campo.
La responsabilità delle amministrazioni, nazionali e locali, è di rendere l’eticità dell’approccio una barriera invalicabile.
Di qui passa il cambiamento profondo di cui ha bisogno l’Italia. E storie come quella di Stradella, non la sola, purtroppo, diventano tema di riflessione centrale per la trasformazione digitale. Perché non si perda di vista l’obiettivo.