pubblica amministrazione

Ecco perché i progetti della PA restano ibernati per 12-18 mesi

Il racconto di un manager pubblico che opera nel settore IT della Corte dei conti: “si rimane invischiati in procedure di una complessità al limite dell’irrazionale e in dedalo di norme focalizzate più sulla forma che sulla sostanza degli interventi”. E’ il momento di aggiornare le regole

Pubblicato il 20 Ott 2014

Michele Melchionda

Corte dei Conti

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In qualsiasi contesto non pubblico un manager che si trovi nella condizione di voler avviare un progetto fatica non poco a convincere la sua organizzazione della bontà delle sue idee, dell’efficacia del piano di attuazione predisposto, del corretto dimensionamento delle risorse professionali ed economiche necessarie e dell’oggettività degli strumenti di misura forniti al management. I processi di approvvigionamento e la selezione dei fornitori fanno parte del suo lavoro mentre la loro esecuzione è delegata in genere ad unità specializzate molto leggere, veloci ed efficienti (o almeno solitamente molto più leggere, veloci ed efficienti delle strutture pubbliche equivalenti).

Un dirigente della PA che provi a replicare il medesimo processo in un contesto pubblico segue per grandi linee gli stessi passi preliminari, ma quando arriva alla fase attuativa e ai processi di approvvigionamento consegna il suo progetto e iberna la sua attuazione per un periodo che non è quasi mai inferiore ai dodici mesi e il più delle volte compreso tra i 15 e i 18 mesi, quando tutto fila liscio.

Si rimane invischiati in procedure di una complessità al limite dell’irrazionale e in dedalo di norme focalizzate più sulla forma che sulla sostanza degli interventi. Stiamo parlando di un presidio della peggiore burocrazia statale e locale (spesso peggiore di quella centrale). L’eccessiva complessità, mentre costituisce il terreno più fertile e adatto per fenomeni corruttivi di ogni genere, frantuma e annienta i già rari tentativi di iniziativa della dirigenza pubblica. In questa situazione a turno sono tutti vittime (clienti ordinanti, stazioni appaltanti, fornitori); gli esiti conclusivi degli interventi, nella quasi totalità dei casi, lasciano i cittadini arrabbiati e insoddisfatti.

La miope convinzione che mediante la redazione di capitolati e disciplinari di gara complicatissimi si potesse realizzare una sorta di immunità dai fenomeni corruttivi si è infranta contro la fredda chiarezza dei dati statistici che pongono il nostro Paese tra quelli più corrotti al mondo, e forse ha anche qualche colpa non trascurabile nella staticità del panorama imprenditoriale del nostro Paese. Entrare in competizione nell’ambito di un appalto pubblico è un’impresa quasi proibitiva per piccole aziende e assolutamente impossibile per una startup. Nella migliore delle ipotesi il panorama attuale lascia loro affamati e spesso invisibili subappalti.

In questo scenario sconfortante le gare in ambito ICT aggiungono ulteriori difficoltà legate alla rapidissima obsolescenza dalla quale questi progetti sono fisiologicamente caratterizzati e per i quali questi tempi sono nella maggior parte dei casi letali. La litigiosità italica, spesso strumentale, e la lentezza della giustizia civile e amministrativa completano il quadro.

Solo a fini statistici varrebbe la pena calcolare quante forniture e convenzioni sono costrette a prolungare il loro effetto in assenza delle nuove aggiudicazioni (SPC e telefonia mobile solo le più note e trasversali); facile desumere a chi vanno i vantaggi e a chi gli svantaggi e gli oneri. Le difficoltà oggettive in cui si trovano ad operare le strutture dedicate alle gare ICT di CONSIP e SOGEI le fa somigliare, loro malgrado, più a scalatori delle montagne di norme ed arzigogoli riferibili agli appalti pubblici, che a strutture abilitanti un corretto rapporto pubblico/privato. Vittime anche loro di questo mostro che ormai vive di vita propria e si rigenera a prescindere dalla volontà degli attori coinvolti.

Se continuiamo a trattare le gare nella PA con questo modello e quelle ICT in particolare, rischiamo di perdere di vista l’unica cosa realmente importante: la complementarietà tra beni e servizi nei processi di creazione di valore nella PA, valore che dovrebbe consistere nella messa a disposizione di servizi e prodotti destinati ai clienti finali (cittadini, imprese, tessuto produttivo, società civile), indispensabili per consentire al nostro Paese di tornare ad essere competitivo.

In un contesto “normale”, le procedure di acquisizione e le gare ICT, per la PA, dovrebbero essere solo un ingrediente che serve a far funzionare bene il meccanismo della PA e non la finalizzazione di un percorso. Le gare, come attualmente condotte, sono troppo complesse e troppo macchinose, quasi fine a se stesse: in ogni PA esistono appositi uffici per gestirle, laddove un simile know-how andrebbe condiviso e sempre più indirizzato verso aggregatori e selezionatori della domanda come CONSIP. In aggiunta occorrerebbero strutture per studiare i servizi di integrazione tra le Amministrazioni e organismi che tutelino gli interessi dei cittadini, destinatari finali dei servizi della PA.

In uno scenario così cavilloso un’azienda rischia di essere esclusa da una gara per l’assenza di un documento, mentre le Amministrazioni non riescono o non vogliono misurare realmente il valore apportato dai servizi e dai prodotti realizzati da tali forniture. Esigere il rispetto formale dei meccanismi impiantati non è, di per se stesso, garanzia di forniture di qualità e trasparenza. Resta irrisolto, infatti, il tema relativo alla valutazione delle risorse e delle capacità del fornitore di beni e servizi (basti, ad esempio, evidenziare i casi di società che si assicurano appalti e poi provvedono a reclutare le relative competenze necessarie per l’espletamento solo dopo l’aggiudicazione).

Forse i vari meccanismi oggi in essere per regolamentare l’acquisizione di beni e servizi della PA hanno bisogno di innovazione, così come di innovazione hanno bisogno i servizi ed i prodotti offerti dalla PA ai propri “clienti”. Innovazione non vuol dire, però, solo sviluppo di software o utilizzo di tecnologie; nel campo dell’e-Procurement si è assistito alla diffusione di nuovi strumenti destinati alle acquisizioni, ma molto meno spesso abbiamo potuto assistere a semplificazioni procedurali e normative. Le gare ICT devono essere innovate, perché attualmente sono una proceduralizzazione burocratica di strati normativi che non considerano minimamente l’unica cosa che conta: l’effettiva realizzazione di servizi per migliorare la vita dei suoi cittadini e per favorire la crescita delle sue imprese.

L’innovazione nelle procedure di acquisizione di beni e servizi nella PA è un ingrediente assolutamente necessario per tutte le tipologie di forniture (non solo quelle legate all’ICT). Essa potrebbe garantire, per esempio, che siano poste in correlazione le varie e notevoli acquisizioni della PA e le reali esigenze dei cittadini e delle imprese. Dovrebbe superare il meccanismo di autoreferenzialità attuale e finalmente prevedere che la trasparenza venga assicurata in maniera sostanziale e non solo formale, e misurata tramite la partecipazione dei cittadini e delle organizzazioni coinvolte.

L’Autorità nazionale anti corruzione è sicuramente un importante passo in avanti in questa direzione e i primi interventi che il dott. Cantone sta promuovendo sembrano andare in questa direzione.

Non si costruisce un buon servizio di e-Procurement solo creando un mercato elettronico e ponendo a listino un prodotto “scontatissimo” rispetto al prezzo di mercato. L’intenzione è giusta, la modalità di esecuzione forse no perché genera stress “finanziari” che i fornitori non possono (e non debbono) sottovalutare. Il valore di un acquisizione è data dall’effettiva utilità combinata con la garanzia di funzionamento in varie condizioni di ciò che si acquisisce. Se tale meccanismo virtuoso non si instaura, ci si rifornisce di “pezzi unici” e non di prodotti/servizi; pezzi unici che sarà difficile gestire (proprio perché particolari). E ciò provoca “stranezze” nelle forniture: varianti, aggiustamenti, accomodamenti, work-around, storture, prolungamenti anomali.

In definitiva, la complessità del meccanismo dà luogo ad una serie di mali: lentezza, sprechi, illeciti, corruzione. Probabilmente anche nell’ambito degli appalti pubblici, come in molti altri settori che riguardano l’ambito produttivo del nostro Paese, le semplificazioni normative e procedurali potrebbero senz’altro favorire la vigilanza ed i controlli messi in atto dall’Autorità nazionale anticorruzione, diventando così importantissimi vettori di chiarezza e trasparenza.

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