Il parlamento salvadoregno ha appena approvato un provvedimento che dà corso legale al bitcoin dal prossimo autunno. È il primo paese al mondo a farlo esplicitamente, anche se in Svizzera è possibile da tempo pagare le tasse con le criptovalute, che è il primo passo per il riconoscimento che si tratta di una “fiat money” come le altre.
Altri paesi, come l’Ucraina e la Bulgaria hanno allo studio provvedimenti simili. Da noi il fisco, per non sbagliare, già tassa le transazioni volontarie in bitcoin ed altro.
La svolta del Salvador: più rischi che opportunità?
Tra qualche mese, in Salvador, il bitcoin potrà dunque essere utilizzato per pagare le tasse, non potrà essere rifiutato come mezzo di pagamento tra privati e lo stato garantirà la convertibilità dei bitcoin in dollari. Tuttavia, il governo non toglierà lo stato di moneta legale al dollaro. E un paese con due monete, entrambe governate dall’esterno, è decisamente inedito.
Per avere un’idea di come andrà a finire bisogna sgombrare la mente dalle peculiarità delle criptovalute e concentrarsi sul funzionamento delle unioni monetarie convenzionali, come l’area dell’euro, la dollarizzazione di alcuni paesi minori, l’uso del rublo in alcune repubbliche ex-sovietiche e del franco africano in alcune ex-colonie francesi.
È difficile nascondere che il quadro che emerge presenta più rischi che opportunità per il Salvador, nonostante l’ottimismo di molti analisti[1], che guardano ai vantaggi per i consumatori in termini di riduzione dei costi di intermediazione. Non a caso il Fondo monetario internazionale, che era in procinto di erogare un prestito di un miliardo di dollari a questo paese, ha sospeso la decisione per approfondimenti.
La motivazione ufficiale della decisione del Salvador è che il trasferimento delle rimesse degli emigrati, che rappresentano il 20% del Pil e una delle principali fonti di sostentamento per molte famiglie, è troppo costoso. In effetti, i miners chiedono commissioni di un solo dollaro per trasferimenti nel giro di pochi secondi e di qualche nichelino se si è disposti ad attendere un’ora, mentre le banche tradizionali e i money transfer possono arrivare a decurtare ogni rimessa anche di qualche decina di dollari.
Un’arma a doppio taglio
In realtà, la speranza è di svincolarsi progressivamente dall’impiego del dollaro, senza tuttavia alimentare attese di iperinflazione come in passato. Infatti, una delle caratteristiche della creatura di Satoshi Nakamoto è quella di prevedere un tetto all’emissione della valuta (fissato a 21 milioni di unità, di cui ne restano da “coniare” solo 4.2 milioni) e di garantire un flusso di emissioni assolutamente prevedibile nel tempo. Quindi gli operatori nazionali ed esteri non possono attendersi “sorprese” neanche in caso di eventi eccezionali, al contrario di quanto accade per le valute tradizionali, gestite abbastanza discrezionalmente dalle banche centrali, che in caso di crisi possono ricorrere a strumenti come in quantitative easing, che ha moltiplicato per 10 la liquidità in circolazione dopo la crisi del 2007-8. Tuttavia, anche questa è un’arma a doppio taglio, perché una moneta che, per costruzione, non può creare inflazione, può favorire spirali recessive. Per questo l’Ether, rivale del Bitcoin, assicura una inflazione stabile del 2% l’anno, come molte banche centrali.
L’esperimento del Salvador presenta molte opportunità, ma anche rischi elevatissimi. Il primo è che è quasi sempre un errore privarsi di uno strumento di politica economica come la moneta. Agli inizi degli anni Sessanta il premio Nobel Robert Mundell coniò il concetto di area valutaria ottimale, all’interno della quale l’uso di una moneta unica avrebbe portato più vantaggi che svantaggi.
Tra questi ultimi, il principale è la risposta a shock “asimmetrici”, ossia che colpiscono in diversa misura i paesi o le regioni che usano la stessa moneta. Se ci sono i cambi flessibili, una crisi in un singolo paese si risolve con una bella svalutazione, che salva l’occupazione locale (pagata in moneta nazionale) e la bilancia dei pagamenti, sfruttando il traino delle esportazioni verso i paesi più fortunati. Con una moneta unica questo giochetto (che comunque si paga in termini inflazione e tassi di interesse più elevati) non è possibile e l’aggiustamento passa per una flessione dei salari e dei prezzi del paese che ha subito lo shock. Se, come accade generalmente, prezzi e salari non sono abbastanza flessibili, tutto si scarica sull’occupazione e sui livelli di produzione. È un meccanismo che l’Italia conosce molto bene, da quando ha aderito ad un sistema di cambi “irrevocabili” nel 1998 e poi all’euro nel 2001.
I vantaggi di una moneta unica
I vantaggi di una moneta unica sono altrettanto rilevanti. Una valuta unica azzera i costi di transazione, ossia le commissioni che si pagavano un tempo presso i cambiavalute di mezza Europa, e quindi facilita e incrementa gli scambi commerciali e la crescita economica. Una moneta comune, potendo raggiungere una massa critica significativa, è meno soggetta ad attacchi speculativi, e garantisce dunque la stabilità dei prezzi interni e dei cambi con le altre monete. Ad esempio, da quando siamo nell’euro, l’Italia ha risparmiato centinaia di miliardi sugli interessi del debito pubblico (che sono passati da oltre l’11% del Pil nel 1995 a circa il 3,5% oggi, nonostante un significativo aumento della massa del debito) ed ha guadagnato in termini di potere d’acquisto reale: se si guarda alla differenza tra il 6% di inflazione di prima dell’euro (quando andava bene) al 2% garantito oggi dalla BCE (e che attualmente striscia attorno allo 0,5%), i consumatori hanno risparmiato qualcosa come 70 miliardi l’anno (che corrisponde al 4% di abbattimento dell’inflazione applicato a tutto il Pil), ovvero quasi 1200 euro a testa. Il rovescio della medaglia è stata una crescita “anemica”, attorno all’1% rispetto quasi il 3% dei due decenni precedenti, che corrisponde a una perdita attualizzata di 3.4 miliardi l’anno. Insomma, per noi il saldo è stato positivo.
In breve, gli economisti hanno dimostrato che una moneta unica conviene se capitali, merci e lavoratori si muovono liberamente all’interno dell’area, se la maggior parte degli scambi commerciali avviene all’interno dell’area, e se i prezzi e i salari sono abbastanza flessibili. Queste condizioni sono talmente restrittive che un famoso studio della Federal Reserve di Chicago dimostrava che neanche gli Stati Uniti erano davvero un’area valutaria ottimale e che quindi ci voleva più di un dollaro (vedi Michael A. Kouparitsas, Is the United States an optimum currency area? An empirical analysis of regional business cycles, in Federal Reserve Bank of Chicago Working Paper, vol. 2001-21, 2001). Negli altri casi bisogna mettere in conto almeno dei costi di aggiustamento in caso di eventi che colpiscono solo un paese o una regione. La Grecia, più di tutti, ha sperimentato quanto sa di sale una moneta unica per un paese in difficoltà. E anche noi ne sappiamo qualcosa.
La situazione del Salvador
Vediamo come si presenta la situazione del Salvador. Non è certamente un paese ricco, potendo contare su un reddito pro capite annuo di circa 4.100 dollari prima della pandemia (che lo pone circa al centesimo posto nelle classifiche internazionali) e su un’economia basata sull’agricoltura (ancora latifondistica), la pesca e la trasformazione alimentare. Quindi il reddito è fortemente esposto a tipici shock asimmetrici, come le crisi climatiche e le fluttuazioni dei prezzi dei prodotti agricoli. In compenso, la mobilità dei lavoratori richiesta da una unione monetaria è assicurata dalla omogeneità linguistica e culturale del Sud America, inoltre quasi tutto il commercio estero dipende dagli USA, e questi sarebbero due punti a favore dell’attuale adozione del dollaro come moneta ufficiale. Tuttavia, il paese ha una situazione politica non troppo stabile e quindi sarebbe difficile per il governo mantenere la coesione sociale difronte ai costi di aggiustamento di un sistema di cambi fissi (soprattutto in termini di prezzi e disoccupazione). E questo potrebbe essere un problema se non si dispone di una moneta propria.
Il Salvador è dunque un paese che già corre dei rischi per la dollarizzazione a cui si è sottoposto nel 2001, in piena crisi argentina, per superare anni di iperinflazione e di instabilità, non solo finanziaria. Questi rischi sono stati descritti da un economista argentino poco noto, Roberto Frankel, che studiando l’esperienza del suo paese, conclusasi drammaticamente nel 2001, ha individuato un circolo vizioso che parte dalla necessaria liberalizzazione dei movimenti di capitale (senza la quale sarebbe impossibile l’adozione di un’altra valuta). All’inizio la dollarizzazione, in un paese in via di sviluppo, attira capitali dall’estero perché garantisce cambi stabili e vere e proprie praterie per gli investitori. Crescita ed occupazione accelerano, ma aumentano anche i debiti privati e l’inflazione con l’estero, perché la struttura produttiva non fa in tempo a adeguarsi all’afflusso di liquidità, che intanto va a gonfiare anche bolle speculative sul mercato immobiliare e in borsa. Purtroppo, con un cambio fisso, questo eccesso di domanda non si può “curare” con la svalutazione e finisce per rendere le merci nazionali più costose di quelle di importazione. A quel punto diminuisce la produzione interna e l’occupazione, mentre la bilancia dei pagamenti va in rosso, e basta qualsiasi incidente per provocare la fuga dei capitali esteri da un paese ormai in piena recessione. In genere la storia si conclude come in Argentina con fallimenti a catena, soprattutto tra le banche, e col tracollo dell’economia e della società.
Questa narrativa è stata resa popolare in Italia da economisti euroscettici come Albero Bagnai (Bagnai, A., 2013, “Introduction: The Euro: Manage It or Leave It!” Comparative Economic Studies, 55.3, p. 381-386) che tuttavia sottovalutano la dimensione e il livello di sviluppo del nostro paese, su cui El Salvador non può certo contare. Naturalmente non è detto che la dollarizzazione finisca male anche in Salvador. Esistono decine di Paesi che vivono tranquillamente utilizzando valute altrui, a cominciare dal Principato di Monaco, Andorra, San Marino, Città del Vaticano, Kosovo e Montenegro, che si sono affidati all’euro. Ma affidarsi addirittura a due monete coniate da altri forse è troppo.
L’azzardo del Governo salvadoregno
Se torniamo ai criteri che rendono conveniente una moneta comune, il Salvador non può contare su intensi scambi commerciali con l’area del bitcoin per il semplice motivo che questi scambi sono ancora abbastanza esigui e le criptovalute sono utilizzate soprattutto per operazioni finanziarie. Se guardiamo alla mobilità dei lavoratori è difficile che essi riescano a ricollocarsi così velocemente tra settori e aree geografiche per adeguarsi alle fluttuazioni di questa valuta (in media del 6% all’interno di una sola seduta) senza subire ampie oscillazioni dei salari e dei livelli occupazionali. Infine, i prezzi dovrebbero cambiare istantaneamente, come le quotazioni delle criptovalute, per assicurare un cambio fisso col dollaro, che è l’altra valuta a corso legale. Non è difficile prevedere che una simile situazione sia fortemente instabile e che quindi la coesistenza tra bitcoin e dollaro duri poco. Lo aveva capito almeno 5 secoli fa Sir Thomas Gresham, agente di cambio di Sua Maestà, e qualche grecista ha trovato idee simili anche nella commedia “Le rane” di Aristofane, scritta circa 2000 anni prima di Gresham.
Nell’antica Grecia e nel Cinquecento le cose erano abbastanza semplici e, alla fine la moneta più stabile e sicura finiva per essere tesaurizzata, mentre si utilizzava per i pagamenti correnti quella che tendeva a svalutarsi (o ad essere “tosata”). La situazione è molto più complicata nel caso delle criptovalute, perché il loro valore cambia istantaneamente (e di molto) in entrambe le direzioni, quindi gli equadoregni dovrebbero passare il tempo ad arbitrare tra dollaro e bitcoin in base a quotazioni che si formano sul mercato globale. In questi processi vince chi è più informato e liquido e, alla fine, la ricchezza si sposta sempre dai più poveri ai più ricchi esattamente come il calore passa spontaneamente dai corpi con una temperatura più alta a quelli più freddi, a meno di applicare abbastanza lavoro per ottenere il passaggio inverso (come in una pompa di calore).
Ma il rischio forse maggiore è costituito dalla promessa del governo salvadoregno di convertire i Bitcoin in dollari per i propri cittadini, che per un paese che neanche emette questa moneta è davvero un azzardo. Questo significa che ad ogni crollo della criptovaluta gli speculatori salvador-vestiti busseranno alle casse della banca centrale per ottenere dollari ed è difficile che questa riesca a soddisfare tutte le richieste, visto che i bitcoin sul mercato valgono circa 600 miliardi di dollari e gli scambi toccano normalmente i 30-40 miliardi, mentre il Pil del Salvador non arriva neanche a 30 miliardi (ossia un ventesimo della capitalizzazione della criptovaluta e poco meno dei fondi scambiati in un solo giorno).
Conclusioni
In sintesi, dopo una eventuale fase iniziale di rapida crescita, legata all’afflusso di capitali stranieri (non tutti di provenienza immacolata), l’economia salvadoregna sembra destinata ad avvitarsi in una sindrome argentina, aggravata da una forte instabilità legata alle fluttuazioni delle criptovalute. Sempre che nel frattempo la banca centrale non dichiari bancarotta davanti alle richieste di conversione dei bitcoin in dollari. Come al solito, si arricchiranno in pochi e perderanno in molti.
Note
(*) Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono in alcun modo le istituzioni di appartenenza dell’autore.
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