Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione; la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
L’avete riconosciuta? È la nostra Costituzione (artt. 15, 21 e 49). Insomma, possiamo associarci per determinare la politica nazionale, possiamo riunirci e manifestare le nostre idee e abbiamo anche il diritto, in tutto ciò, di veder tutelata la riservatezza delle nostre comunicazioni. Come questo si possa realizzare nel mondo fisico è perfettamente chiaro. È nell’infosfera che abbiamo qualche problema, ma è proprio lì che gran parte della partecipazione politica oggi concretamente si sviluppa.
Sia pure sotto una grandine di fake news, in un delirio di argomentazioni fasulle o di banali insulti, nel rimbombo delle echo-chamber, fra sarcasmi e motteggi spesso scadenti, noi di fatto esterniamo e confrontiamo i nostri orientamenti politici sui cosiddetti social. La rilevanza di questo fenomeno è ben presente ai partiti politici, alcuni dei quali, tuttavia, non trovano di meglio che reclutare soldati addestrati alla guerriglia telematica per schierarli in apposite war-room, con esiti spesso mediocri. Si potrebbe pensare che sia come stare in una grande piazza a discutere animatamente, bisbigliando in capannelli o urlando a squarciagola, ma sarebbe un’analogia fuorviante.
L’infosfera non è uno spazio geometrico regolato da leggi fisiche, come il nome potrebbe suggerire, ma è un medium, cioè un sistema di comunicazione che dà forma ai suoi messaggi (nel senso di McLuhan); che ci mette del suo, insomma. Uno spazio la cui complessità è di carattere sociale, non matematico. La politica si trova dunque oggi a dipendere da qualcosa che è essa stessa oggetto di politica, e i logici insegnano che queste situazioni vanno gestite con molta cura.
Ma i social sono compatibili con lo spirito della Costituzione?
Ci troviamo a esercitare la più importante tra le prerogative costituzionali nei termini e nelle condizioni dettate dalle piattaforme sociali, che in genere suonano così: l’utente ci fornisce una licenza non esclusiva, trasferibile, che può essere concessa come sottolicenza, libera da royalty e valida in tutto il mondo, che consente l’utilizzo dei contenuti pubblicati.
Non solo le piattaforme fanno strame della segretezza (non facciamoci trarre in inganno dal fatto che possiamo limitare la visibilità di un post: chi detiene la piattaforma detiene tutti i suoi dati), ma possono ampiamente stabilire chi-legge-cosa, in base ad algoritmi di loro proprietà (non facciamoci trarre in inganno dalle dichiarazioni alla stampa: o una piattaforma è open source oppure non sapremo mai cosa ci gira dentro). Ce n’è abbastanza per far morire padri e madri costituenti una seconda volta. Anche se le terms and conditions dei social non facessero a pugni con la Costituzione, il loro uso come piattaforme di discussione politica sarebbe comunque scadente. Esse, d’altra parte, non sono nate per dare supporto all’argomentazione e alla deliberazione collettiva, cose per le quali sono necessari specifici modelli. Se oggi cerchiamo di usarle in modo improprio è perché abbiamo un gran bisogno di argomentare e deliberare in una dimensione comunitaria, un bisogno che i partiti, per lo più, non soddisfano. Tutti? No, esiste un’eccezione, che tuttavia conferma la regola.
Movimento 5 Stelle
Qualunque cosa se ne pensi, al Movimento 5 Stelle va riconosciuta la più importante innovazione del metodo politico nella nostra storia recente, e questa consiste in una forma di democrazia diretta (la cui efficacia non è qui in discussione) che si sostanzia in una piattaforma di partecipazione politica intitolata con eloquenza a Jean-Jaques Rousseau. Rousseau (la piattaforma) può avere tanti difetti, ma si impegna come minimo alla riservatezza, tanto più che vi si accede solo se si è iscritti al Movimento. Lo conferma indirettamente anche il Garante della Privacy che, impotente su ciò che accade in luoghi come Facebook o Twitter, vi ha dedicato di recente molta attenzione. Per quello che si può arguire dal di fuori, su Rousseau, bene o male, si elabora e si decide, non solo su fatti interni al partito, come le candidature, ma anche nel merito di questioni politiche o amministrative.
I grandi partiti del dopoguerra erano, chi più chi meno, comunità in cui si dialogava. Si è poi cercato da più parti di ridurli a delle audience, ma il bisogno di esprimersi politicamente, oltre ad essere incardinato nelle costituzioni liberal-democratiche come la nostra, è iscritto nell’antropologia, almeno alle nostre latitudini. Chi ha colto questo aspetto per tempo oggi beneficia di un consenso che va al di là del merito, perché riguarda sostanzialmente il metodo. Si può immaginare – ed auspicare – che altri seguiranno, se non altro come alternativa alla sparizione. Ci troveremo presto o tardi, dunque, ad affrontare il problema di come gestire l’infosfera politica.
La necessità di prevedere requisiti specifici per le associazioni politiche (visto che lo facciamo anche per le società calcistiche) è stata oggetto, in un recente passato, di lunghe discussioni e caute legislazioni, segno comunque che ciò che scrissero i costituenti è degno di qualche attenzione. Naturalmente, la volontaria e (più o meno) consapevole rinuncia alla riservatezza da parte di chi argomenta (o ci prova) sui social non può essere conculcata. Tuttavia, neanche si può accettare che l’esercizio concreto della partecipazione politica sia commisurato agli specifici orientamenti dei cittadini, sicché alcuni possono concorrere con idee e proposte tutelati nella loro riservatezza e tutti gli altri sono lasciati a sguazzare, coram populo, nel guano: questo sarebbe anticostituzionale. Bisogna evidentemente promuovere uno standard. La nostra storia mostra come il finanziamento pubblico ai partiti sia stato esecrato anche al di là del demerito di questi ultimi. Ma il sostegno allo sviluppo di piattaforme di partecipazione politica che portino la Costituzione dentro il terzo millennio dovrebbe raccogliere consenso unanime, almeno da parte dei cittadini.
Vedi anche: quali strumenti per una partecipazione civica.