L’antefatto è noto: come previsto dal DL 179/2012, tutte le Regioni e Province Autonome devono realizzare il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE) e renderlo disponibile agl assistiti del Servizio Sanitario Nazionale. Con la sola esclusione della Provincia Autonoma di Bolzano (e chissà perché), tutte le Regioni e Province Autonome hanno inviato all’AgID i loro piani progettuali, che in queste settimane sono al vaglio della Commissione istituita ad-hoc. Nonostante il fatto che il decreto attuativo continua a vagare su chissà quale scrivania di Palazzo Chigi e che, quindi, questi piani progettuali facciano riferimento a una “bozza” del decreto stesso allegata alle linee guida emanate dall’Agenzia e dal Ministero Salute.
Nelle more di tutto ciò, e al netto da eventuali proroghe ai termini fissati dal 179, proviamo a fare il punto sullo stato dell’arte per cercare di capire se e quanto tutte le Regioni riusciranno ad “andare in onda” entro i termini.
Partiamo dai FSE esistenti: sono cinque (Provincia Autonoma di Trento, Toscana, Lombardia, Emilia-Romagna, Sardegna), più qualche sperimentazione attiva qua e là a (solita) “macchia di leopardo”. Secondo dati non ufficiali, sarebbero 12 milioni circa i cittadini che possono accedere al loro Fascicolo, nel senso che hanno espresso il consenso al trattamento dei loro dati clinici. E qui scatta il primo problema: “possono accedere”, che non significa “accedono”. Difficile, in assenza di dati ufficiali, stimare il reale accesso: secondo l’Osservatorio Netics (che ha raccolto informazioni presso le ASL e le associazioni di rappresentanza dei medici di famiglia) gli utenti “reali” (e continuativi, escludendo quindi il “primo click” fatto per curiosità) sono meno di 2 milioni.
Emerge, su tutti, il Fascicolo della Provincia di Trento dove con un ottimo lavoro preliminare di posizionamento strategico si è capito che il successo dell’iniziativa stava tutto nella capacità di realizzare uno strumento davvero utile per l’assistito e non solamente uno strumento per il medico curante. Esattamente come è stato fatto in mezzo mondo, dove si è partito dall’assistito e dai suoi reali bisogni e non dal puro esercizio tecnologico-informatico. Dove si sono coinvolti sin da subito, prima ancora di iniziare a scrivere il software, tutti gli attori coinvolti nel processo di erogazione di servizi sanitari e socio-sanitari e tutti i principali vendor di software specializzati in sanità elettronica.
Perchè il FSE è soprattutto un’azione di sistema, un progetto trasversale che coinvolge attori pubblici e privati del SSN (ospedali pubblici e privati, ambulatori pubblici e privati, medici, farmacisti, laboratori e centri diagnostici) che non può essere gestito come un qualsiasi progetto della Pubblica Amministrazione in modalità rigorosamente autoreferenziale. Lo ha capito benissimo Trento, lo ha capito altrettanto benissimo la Toscana dove l’Amministrazione Regionale ha incentivato la creazione di un ecosistema di sanità digitale partecipato dai principali vendor IT privati. Anche in Lombardia (dove, è il caso di ricordarlo, tutto il programma CRS-SISS è nato a partire da una grandissima operazione di partenariato pubblico-privato) tutti gli stakeholder partecipano proattivamente al processo di diffusione di un modello che continua a rappresentare il punto di riferimento cui dovrebbero guardare tutte le Regioni.
Peraltro, il FSE dovrebbe anche essere uno strumento non necessariamente confinato al livello regionale. E, per evitare sovracosti, questa “inter-regionalità” dovrebbe essere concepita ex-ante e non attraverso le solite sovrastrutture di “interoperabilità a posteriori”.
In questo senso, iniziative quali l’ecosistema “toscano” dovrebbero scalare a livello nazionale e diventare un punto di riferimento e un interlocutore privilegiato, purchè siano capaci di integrare tutti i principali vendor e i fornitori di tecnologie di base e di middleware.
Così come le Regioni e Province Autonome dovrebbero provare a mettere a fattor comune ex-ante le loro iniziative progettuali, anche per evitare di pagare 21 volte le stesse cose (l’autenticazione degli utenti, lo sviluppo delle integrazioni coi vari software verticali, lo sviluppo di nomenclatori e tassonomie, ecc.) come inevitabilmente faranno in assenza di auspicabili fatti nuovi.
Le società IT “in-house” rappresentano in questo senso un problema, in quanto alcuni vincoli normativi (a partire dalla “Legge Bersani”) impediscono loro di dar vita a iniziative comuni e a sviluppi congiunti se non attraverso un castello di “riusi inter-regionali” decisamente inefficace. Quindi, i casi sono due: o si rimette mano alla “Bersani”, o si risolve in altro modo questo problema che coinvolge una buona dozzina delle 21 Regioni e Province Autonome italiane. Detto per inciso che la prima opzione (rimettere mano alla “Bersani”, magari autorizzando iniziative progettuali cooperative e le transazioni “commerciali” conseguenti) potrebbe essere utile ma dovrebbe essere accompagnata da un “patto forte” fra le in-house e il mercato privato, per evitare che si ripresentino tentazioni di supremazia e protagonismo da parte di soggetti che – non lo si ricorda mai abbastanza – sono e devono rigorosamente rimanere “sul versante della domanda”.
Semplificare e razionalizzare le singole iniziative progettuali, quindi: attraverso il ricorso sistematico all’infrastruttura centrale di FSE (prevista dalla norma), al coinvolgimento dei vendor privati e al “riuso ex-ante”. Secondo il principio inderogabile del “non si sviluppa più di una volta la medesima riga di codice sorgente e/o la medesima funzione”.
Anche (o “soprattutto”) questa, è spending review.