Scrivo questo pezzo in una calda giornata d’agosto dell’Anno Domini 2013, in cui in rete si festeggia la morte del fax come mezzo di scambio di comunicazioni pubblica amministrazione. Si, avete letto bene, è servito un emendamento al senato al decreto del fFre per vietare alla P.A. di scambiarsi comunicazioni utilizzando il FAX, un emendamento giustamente chiamato “ammazza-FAX”. Vittoria quindi: le comunicazioni all’interno della PA debbano avvenire per via telematica, ma si va oltre! si arriva a stabilire persino «l’esclusione dell’invio a mezzo fax» annullando quanto a suo tempo considerato una sentenza del Tar della Puglia, che aveva ritenuto il FAX l’unico strumento “idoneo” e giuridicamente valido per le comunicazioni tra pubbliche amministrazioni. L’emendamento ha battuto pure il parere del governo che tramite sottosegretario aveva detto: “L’altro giorno non funzionava l’email e meno male che avevano il fax altrimenti non avrebbero saputo come fare”. Sempre in tale direzione dal 1 luglio 2013 è entrato in vigore l’art. 5 bis del Codice dell’Amministrazione Digitale il quale prevede che anche le comunicazioni tra imprese e pubbliche amministrazioni debbano avvenire in formato digitale. Se consideriamo che già dal marzo del 2005 viene sancito il diritto del cittadino di utilizzare le nuove tecnologie per le comunicazioni con le PA, direi che abbiamo perso una battaglia di civiltà.
Dopo 8 anni dall’entrata in vigore del codice dell’amministrazione digitale dover arrivare a imporre un emendamento per evitare l’uso del FAX rispetto al digitale significa aver perso su tutti i fronti la sfida alla digitalizzazione della P.A. per un semplice motivo: l’ignoranza digitale. Abbiamo un popolo di ignoranti digitali diffuso ovunque, dall’ambito scolastico all’ambito aziendale, passando per le PA e per i rappresentanti istituzionali. Ogni giorno si sente parlare di internet e di norme ad hoc, quotidianamente la PA spende in migliaia di euro in formazione del personale per “patenti europee” e similari che di fatto hanno dimostrato di non aver portato alcun beneficio “digitale” se non il passaggio da macchina da scrivere / calcolatrice a personal computer (poca evoluzione digitale nell’arco di 8 anni). Ma in Italia analogica possiamo fare ancora di peggio. Qualche giorno prima invece mi è capitato di vedere (e condividere) su Facebook e Twitter un decreto di un giudice di Forlì in cui decretava alla cancelleria o alla parte di predisporre copia cartacea del ricorso depositato tramite PEC in quanto al momento non fornito di mezzi tecnici per leggere la documentazione tramite tecnologie informatiche. Stiamo parlando di PEC, Posta Elettronica Certificata, la “raccomandata digitale”, una normalissima e-mail che si può aprire, leggere, stampare anche con un computer di inizio millennio. Stiamo parlando di qualcosa per cui le PA e le CCIAA fanno dei corsi a dipendenti pubblici ed aziende per capire che si tratta di un messaggio di posta elettronica con una “busta” e una “ricevuta” particolare. Stiamo parlando del 2013, di un paese primo al mondo per l’uso di giocattoli “social”, secondo al mondo per l’uso di smartphone.
La PEC, e la “sorella minore”, la CEC-PAC sono il risultato di un bisogno di risparmio da parte della PA ma non sono ancora decollate, si è dovuto fare norme su norme per obbligare le PA ad abbandonare la carta a favore delle comunicazioni digitali. Perché questa resistenza? In fin dei conti tutti i documenti prodotti dalle PA non nascono da personal computer (a meno che non ci siano ancora degli uffici di amanuensi) e da questo vengono stampati per la spedizione? Cosa ci vuole quindi ad inviare tali documenti in forma digitale, riducendo i tempi di consegna e i costi di gestione delle pratiche? Alcune amministrazioni intelligenti l’hanno fatto, applicando dei veri e propri switch-off: INPS, INAIL, CCIAA oramai inviano tutto in forma digitale tramite PEC garantendo la ricezione immediata dei contenuti. Perché altre hanno ancora una resistenza analogica, al punto da dover normare il buon senso? Si, perché stiamo parlando di normazione del buon senso: arrivare a fare una norma che vieta l’uso del FAX tra pubbliche amministrazioni significa riscontrare che la PA non vuole utilizzare il digitale, nell’Anno Domini 2013. La domanda che dobbiamo realmente porci è: perché non vogliono? Dove sta il problema? La materialità dell’atto è così essenziale per darne “mentalmente” valore a chi lo produce? Queste ed altre domande dovrebbero essere poste ai dipendenti pubblici, magari con una consultazione del Dipartimento Funzione Pubblica per capire dov’è l’inghippo. Non mi spingo oltre, ovvero alla firma digitale altrimenti casca completamente il palco delle pubblicazioni on line delle PA. Eh sì perché la pubblicazione all’albo on line senza firma digitale in quanto le copie informatiche “semplici”, derivate cioè dalla scansione ottica di un originale analogico ed esposte sul web (solitamente nel formato pdf) non possono garantire la conformità all’originale. Dove sta il problema? Beh, non solo in atti “classici” ma pure in atti “personali”. La pubblicazione nell’albo pretorio, da effettuarsi necessariamente on line dal 1 gennaio 2011, con riguardo all’avviso sia di pubblicazioni di matrimonio, sia del sunto delle domande di cambiamento del nome o del cognome, deve essere firmata, con firma digitale[1]. È chiaro che solo questo dovrebbe far capire l’importanza di lavorare con documenti digitali anziché analogici.
E siamo solo alla PEC e firma digitale. Pensiamo che succederà ora con altre “norme di buon senso” come l’anagrafe unica e il documento unificato unico. Eh sì perché all’alba dell’estate 2013 si è finalmente scritto nero su bianco di eliminare la babilonia digitale in modo da consentire l’identificazione unica del cittadino, consentendogli di potersi “far riconoscere” da qualsiasi PA, senza dover ogni volta girare con un portafogli dedicato ai documenti di riconoscimento (che oramai fanno concorrenza numericamente alle tessere fedeltà dei supermercati). Rimangono ancora scogli culturali da abbattere: ricordiamoci che siamo il paese dell’autocertificazione, che è la sconfitta della PA (autocertificare significa che la PA non ha i mezzi per verificare le dichiarazioni e pertanto accetta – fino a prova contraria – quanto dichiarato dal cittadino), siamo il paese in cui si sta rischiando di paralizzare le forniture pubbliche con il DURT. Siamo anche il paese che predispone servizi che disincentivano l’uso del digitale, anche se obbligatori. Provate a parlare con responsabili di testate giornalistiche in relazione alla registrazione on line delle testate al ROC: un terno al lotto.
Proprio mentre scrivevo questo pezzo, un amico su Facebook mi ha fatto notare l’analogizzazione della PA: lui ha scritto via PEC, la PA ha risposto via raccomandata. Siamo ancora al “Carta canta”? Vorrei un paese in cui “Carta canta” sia legato solo ai palchi in cui si esibisce Marco Carta.
[1] http://www.urp.it/allegati/circ_2011-13.pdf
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