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Foia, ecco cosa migliorare perché sia vera rivoluzione

Sono ancora molti i punti da risolvere per rendere il Freedom of Information Act quella rivoluzione copernicana che tutti ci saremmo attesi. Il caso emblematico di Renato Mezzo, ex dipendente di una società partecipata del Piemonte. Occorre formazione e informazione

Pubblicato il 03 Ago 2017

Federico Anghelé

Direttore The Good Lobby

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L’introduzione del Freedom of Information Act in Italia può considerarsi, in potenza, una delle più significative conquiste anticorruzione degli ultimi anni. Ribaltare la prospettiva, rendendo qualsiasi atto e documento della pubblica amministrazione e delle società partecipate disponibile a chiunque ne faccia richiesta, può infatti innescare quel controllo diffuso dell’amministrazione da parte di giornalisti, società civile organizzata e semplici cittadini, che da tempo è già presente in molti Paesi occidentali. Tuttavia, anche la migliore delle leggi sulla carta – e questo non è esattamente il caso italiano – può rivelarsi un incubo se applicata male dai burocrati dell’amministrazione pubblica.

Riparte il futuro ha raccolto, da quando il decreto legislativo 97/2016 è entrato in vigore, storie di cittadini che hanno deciso di esercitare il loro diritto a conoscere, interrogando la pubblica amministrazione su ogni sorta di tema e materia. A balzare agli occhi è quanto il FOIA sia ancora un oggetto sconosciuto, sia da parte dei cittadini (il che potrebbe anche essere comprensibile) sia da parte della pubblica amministrazione (e questo è meno accettabile).

Emblematica, tra tante, la vicenda appena conclusasi di Renato Mezzo, ex dipendente della Casa Atc Servizi s.r.l, la società partecipata che si occupa di gestione delle case popolari in tutto il Piemonte. Mezzo viene licenziato e vuole perciò sapere quali sono state le ragioni che hanno portato la società pubblica a questa decisione, ma non solo: vuole togliersi il dubbio che nella partecipata tutte le assunzioni di personale e le attribuzioni stipendiali siano state fatte a regola d’arte.  Come cittadino ha pieno diritto di saperlo. E infatti ha un’arma a disposizione: il Freedom of Information Act.  Così, a dicembre 2016, appena entrato in vigore il nuovo diritto di accesso, propone un’istanza per conoscere le deliberazioni del consiglio di amministrazione della società Casa ATC servizi s.r.l. a partire dall’ottobre 2015 fino a quel giorno. A gennaio 2017 la Casa Atc Servizi nega l’accesso a quei documenti: secondo loro infatti la protezione dei dati personali e gli interessi economici e commerciali di una (non meglio specificata) persona fisica o giuridica verrebbero violati se dovessero far leggere le delibere del CDA.

Renato non si arrende e fa ricorso. Si rivolge al Difensore civico e al Garante della Privacy chiedendo di far valere il suo diritto. Saranno proprio loro a dargli ragione la prima volta.
Il Difensore dà 30 giorni alla società per rendere note le delibere. Sembra assurdo ma nonostante le autorità preposte diano ragione a Renato, la Casa ATC Servizi continua a tenere segrete le deliberazioni ignorando il parere del Difensore civico.

Renato è testardo e vuole sapere: fa una nuova istanza di accesso, (stavolta accesso ordinario, art. 22 della l. n. 241/90) e chiede di poter leggere tutte le delibere che riguardano il suo rapporto di lavoro, dal trattamento economico, alle mansioni, fino al licenziamento.

L’amministrazione di ATC apparentemente cede, ma invece di dargli accesso a tutte le informazioni, consegna un verbale striminzito (risalente ad aprile 2016) e non allega nessun documento citato nel verbale. Insomma ATC fa orecchie da mercante. Renato a questo punto perde la pazienza. E fa ricorso davanti ai giudici del Tribunale Amministrativo del Piemonte. Il conto è salato, 2.500 euro di spese legali, ma ne vale la pena. Il 24 luglio 2017, il TAR gli dà ragione. Una sentenza impone a Casa ATC Servizi di dare seguito alle richieste di accesso agli atti fatte da renato: non sussiste nessuna ragione di privacy (se ci fossero nomi da tutelare basterebbe oscurarli nei documenti in questione) né alcun interesse commerciale (le società in controllo pubblico non sono coperte da diritto d’autore, dei marchi o dei brevetti). Il giudice piemontese condanna la società anche alla rifusione delle spese legali sostenute da Renato.

L’impressione – che emerge anche da questa storia – è che ci siano ancora molti punti da risolvere per rendere il Freedom of Information Act quella rivoluzione copernicana che tutti ci saremmo attesi. Prima di tutto, bisognerà lavorare tantissimo su informazione e formazione, all’interno della PA e all’esterno, affinché cittadini e burocrati comprendano davvero le potenzialità del diritto di accesso generalizzato e imparino a maneggiarlo con la cura di cui ha bisogno.

Dopodiché, come ha affermato anche Raffaele Cantone nella sua recente presentazione alla Camera della relazione annuale sull’operato dell’ANAC, una volta che avremo dati certi sul numero di accessi, di esclusioni, si dovrà immaginare un miglioramento del FOIA. Come racconta la vicenda di Renato Mezzo, si dovrà riflettere sull’opportunità di semplificare gli accessi, rendendo la materia meno ostica a chi debba applicarla e a chi si trovi a dover fare richieste all’amministrazione. L’esistenza di tre diversi accessi, quello previsto dalla 241/90, quello civico (decreto 33/2013) e infine l’accesso generalizzato (d.lgs 97/2016), ciascuno con proprie regole e caratteristiche, rischia di rendere impacciati e confusi anche i meno sprovveduti. Più di una volta ci è già capitato di “assistere” membri di organizzazioni della società civile che non riuscivano a districarsi nel labirinto normativo e i conseguenti obblighi di legge i (firma autografa o no?, ufficio competente a cui inviare la richiesta?).

In attesa di un monitoraggio ufficiale a distanza di un anno dall’entrata in vigore del FOIA, lo stress test operato da Diritto di sapere, a cui ha contributo anche Riparte il futuro, parla chiaro: 56 tra attivisti e giornalisti hanno promosso ben 800 richieste di accesso civico rivolte a diverse amministrazioni. I risultati non sono stati incoraggianti: il 73% di queste richieste non ha avuto esito soddisfacente. 1 risposta su 3 (il 35%) ha ricevuto addirittura un rifiuto illegittimo e una quota ampia, il 21%, ha subito un diniego per ragioni procedurali. Come ha scritto Diritto di Sapere nel suo report, per cambiare lo stato dell’arte,  sarà necessario “un ente supervisore che abbia poteri sufficienti per adempiere le seguenti funzioni: – formare i funzionari pubblici nell’applicazione della legge – promuovere il diritto di accesso alle informazioni – ricevere reclami sulla gestione delle richieste e su altre violazioni della legge – ordinare la pubblicazione di informazioni e imporre altre misure alle Pubbliche amministrazioni per garantire il rispetto della legge – sanzionare gli enti che che non rispettano la legge”.

In attesa che queste migliorie vengano attuate Riparte il futuro ha prodotto il suo WikiFOIA, una guida che spiega in pochi passi come inoltrare richieste di accesso civico per consentire davvero a tutti di far valere il proprio diritto di informazione.

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