Il 23 giugno è entrato in vigore il D.Lgs. 97/2016 che ha modificato il D.lgs. 33/2013 (Decreto Trasparenza) apportandone significative modifiche, ma le P.A. hanno tempo fino al 23 dicembre 2016 per adeguarsi e fino al 23 giugno 2017 per verificare la completezza , la correttezza e l’aggiornamento dei dati che avranno, nel frattempo, già trasmesso alle Banche dati (centralizzate).
Differentemente da quanto previsto dal tradizionale “accesso agli atti “(L.241/90), limitato ai soli soggetti che hanno un “interesse diretto concreto e attuale”, l’accesso, per le vie brevi (anche via email), gratuito, esercitabile da chiunque e senza motivazione alcuna, a informazioni, dati e documenti “a pubblicazione obbligatoria”, in apposita sezione “Amministrazione Trasparente” del sito web istituzionale delle P.A., era già possibile dal 21 aprile 2013, data di entrata in vigore del Decreto Trasparenza.
La reale novità del “Freedom Information Act” in Italia è l’estensione dell’originario “accesso civico[1]” anche a “dati ulteriori”.
Pertanto, con il FOIA viene sancita l’universale pubblicità, conoscibilità, fruizione, utilizzo e riutilizzo di documenti, informazioni e dati, oggetto di pubblicazione obbligatoria “e non”.
Tuttavia, come appena illustrato, già con il previgente D.lgs. 33/2013, attraverso i dati a pubblicazione obbligatoria chiunque poteva vigilare, attraverso il sito web istituzionale, sulle” finalità e le modalità di utilizzo delle risorse pubbliche da parte delle pubbliche amministrazioni”.
Per ciò che concerne il riutilizzo dei dati si estende l’obbligo di pubblicazione in formato aperto anche per quelli ulteriori ma già le previgenti disposizioni sottoponevano le P.A. ad assicurare la “qualità delle informazioni riportate nei siti istituzionali nel rispetto degli obblighi di pubblicazione previsti dalla legge”.
Obblighi che venivano già da qualche anno e vengono tutt’ora esplicitati dal Codice dell’amministrazione digitale all’art. 52, secondo il quale tutti i “dati e i documenti che le amministrazioni titolari pubblicano, con qualsiasi modalità, senza l’espressa adozione di una licenza”, si intendono rilasciati come dati di tipo aperto (ad eccezione dei casi in cui la pubblicazione riguardi dati personali).
Quindi, la differenza rispetto alla previgente disciplina è da individuarsi nella trasparenza reattiva (in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati ) essendo già prevista quella proattiva (pubblicazione obbligatoria sui siti internet delle amministrazioni dei dati e delle notizie indicati dal d.lgs. 33/2013)
L’ambito oggettivo (anche di quelli in formato aperto) esteso a “ulteriori dati” rispetto alla previgente normativa incontrerà i limiti dettati dalla necessità di tutelare gli interessi “pubblici” (come “sicurezza pubblica e l’ordine pubblico e nazionale) e “privati” (come “protezione dei dati personali, gli interessi economici e commerciali”) giuridicamente rilevanti . Saranno le linee guida recanti indicazioni operative emanate dall’ANAC a risolvere con chiarezza questi spazi grigi e a definire il nuovo Allegato A.
Tuttavia molti sono i dubbi anche sull’effettività posta da tale soluzione.
Infatti, sebbene il provvedimento dovrà essere espresso e motivato, la P.A. può sempre giustificare il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso nei casi e con i limiti da essa stabiliti.
Limiti, occorre ricordarlo, che interesseranno anche i dati soggetti a obbligo di pubblicazione, cosa che non avveniva con il previgente D.lgs. 33/2013 (pur valendo, in generale, un limite alla trasparenza costituito dalle stesse ragioni). Quindi se da un lato s’intende estendere il diritto di accesso, dall’altro si corre il rischio, invece di restringerlo. Inoltre, un’ulteriore limitazione è rappresentata dalla possibilità (l’ANAC in questa ipotesi non ne ha l’obbligo) che, di tali dati a pubblicazione obbligatoria, la forma integrale sia sostituita con quella di informazioni riassuntive e modalità semplificate di adempimento.
Un’altra criticità la si ritrova ora nell’operatività di un’istanza di accesso civico. La previgente disciplina prevedeva un riscontro entro 30 giorni e uno successivo di 15 giorni, previo ricorso al potere sostitutivo, se alla prima istanza il cittadino non riceveva un responso o lo riteneva, giustificandolo, insufficiente. Con la vigente normativa, contrariamente a quelle che sono state le indicazioni del Consiglio di Stato che suggeriva un unico help desk telematico, questo canale potrebbe confondersi, o peggio aggiungersi, a quello relativo ad una richiesta per “tutti gli altri dati” che prevede invece , in risposta, alternativamente, tre figure (URP, ufficio che detiene i dati, altro ufficio) a cui il cittadino può rivolgersi sia prima che dopo (ad altrettanti soggetti, tra cui il Difensore civico per gli enti territoriali), aver presentato l’istanza, sebbene il Responsabile della Trasparenza sia rimasto l’unico destinatario per i dati a pubblicazione obbligatoria.
Infatti, alla “legittimazione “generalizzata” sancita dal decreto trasparenza nel 2013 e alla legittimazione “soggettiva”, stabilita negli anni 90’ dalla Legge 241, che invece fonda le sue ragioni sul divieto del controllo generalizzato[2] dell’operato della P.A., si aggiunge un terzo accesso agli atti di cui il cittadino potrebbe avvalersi nella speranza di ottenere un maggior successo di riscontro. Pertanto, oggi, esse convivono più che mai creando non pochi dubbi interpretativi e soprattutto operativi. Questo ha per conseguenza l’esistenza di tre diversi tipi di accesso.
L’esercizio contemporaneo di tutte e tre le modalità potrebbe comportare un rilevante e inutile aggravio del procedimento da parte della P.A. in netta contrapposizione proprio con quello che invece si voleva impedire. Tutto ciò senza considerare il ricorso al potere sostitutivo, prima accennato, scomparso dalla versione vigente del Decreto Trasparenza ma che probabilmente è ancora attivabile proprio perché sopravvive ai sensi della l. 241/90. A questo si aggiunge il percorso parallelo (valevole per fortuna solo per i dati non oggetto di pubblicazione obbligatoria) delle informazioni da comunicare e i riscontri da ricevere dai controinteressati.
Per queste circostanze, nel momento in cui si verificano, sono scanditi in modo preciso tempi e rapporti tra i vari soggetti ma cosa accadrebbe se uno degli interpellati, come il Garante della Privacy, non rispondesse?
Infatti la novella, sancendo un soluzione extragiudiziaria nei casi di diniego totale o parziale dell’accesso o di mancata risposta entro il termine, ne introduce uno di 20 giorni entro il quale il Responsabile della Trasparenza deve decidere sulla richiesta di riesame e un altro di 30 giorni dalla presentazione del ricorso, avverso i provvedimenti intrapresi da Enti territoriali, per il Difensore civico, se il diniego o il differimento ritenuto illegittimo non è confermato dall’amministrazione competente.
Dieci giorni è, invece, il termine entro il quale deve rispondere il Garante della Privacy interpellato dal Responsabile della Trasparenza o dal Difensore civico se l’accesso è stato negato o differito a tutela degli interessi rilevanti.
Inoltre, il procedimento di accesso civico deve concludersi (decisione e trasmissione) nel termine di 30 giorni dalla presentazione dell’istanza con la comunicazione al richiedente e agli eventuali controinteressati, decorsi 10 giorni da una loro eventuale e motivata opposizione e trascorsi successivi 15 giorni, in caso di accoglimento della richiesta di accesso civico, nonostante l’opposizione e salvi i casi di comprovata indifferibilità.
[1] Nel riformare il “titolo”, il neo decreto trasparenza stabilisce che il riordino della disciplina riguarda anche “il diritto di accesso civico” estendendone, appunto, l’applicazione a dati “ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione ai sensi del presente decreto”
[2] ne sono una testimonianza le recenti sentenze del TAR che ne rilevano in tale circostanza un intralcio e un appesantimento dell’azione amministrativa