Poco personale, strumentazioni obsolete, scarsa formazione, difficoltà ad accedere a nuove competenze: la capacità di innovazione dei piccoli Comuni, spesso, non è in grado di stare al passo con le esigenze del proprio sistema dell’utenza, creando delle disparità rispetto all’offerta dei centri di più grandi dimensioni. La messa in discussione delle configurazioni organizzative degli Enti, a favore di modelli che vadano nella direzione della collaborazione, arrivando fino alla fusione delle strutture e delle Istituzioni, è un percorso che può favorire risparmi della spesa, il mettere a sistema le capacità di attrarre adeguate competenze e risorse da investire, nonché la capacità di influenzare le scelte politiche. Nuove opportunità, quindi, di migliorare l’attuale configurazione della Pubblica Amministrazione, per implementare nuove soluzioni, che si fondino su variabili organizzative e tecnologiche, al fine di aumentare e omogeneizzare la qualità dei servizi erogati all’utenza, sfruttando i paradigmi tipici dell’eGovernment.
Sulla carta un percorso virtuoso e razionale, che si scontra, però, a volte, con la stessa utenza verso cui l’innovazione vorrebbe rivolgersi. Nel nostro Paese, infatti, l’opinione pubblica sembra richiedere una qualsivoglia riforma, purché non comporti costi per l’erario, ma induca maggiore efficienza nell’Amministrazione Locale. Riforma che si scontra poi tra chi propende per una drastica riduzione dei Comuni di piccole dimensioni e chi invece difende l’esigenza del mantenimento dell’assetto attuale degli Enti locali. Lo dimostra, per esempio, la Regione Lombardia che, nelle scorse settimane, ha dato il via libera solo a 9 aggregazioni su 19 proposte, uniformandosi così al volere espresso dalla cittadinanza dei singoli territori. Questo, però, come detto, accade in Italia. Se si sposta l’attenzione subito al di là del confine la situazione appare completamente capovolta, sia nelle premesse ma soprattutto nei risultati. Nella Svizzera Italiana, nello specifico nel Canton Ticino, infatti, un’esperienza ormai decennale, e in continua evoluzione, ha dimostrato che, a fronte di un consistente investimento iniziale di risorse, supportato da un progetto pluriennale, condiviso e monitorato tra i soggetti attuatori, si possono raggiungere risultati interessanti, sia per i cittadini sia per le Amministrazioni.
Il 16 dicembre 2003, con la revisione della Legge sulle aggregazioni e separazioni dei Comuni sono state introdotte le basi legali per l’adozione di un Piano cantonale, definendo così un riordino territoriale in grado di fornire un riassetto istituzionale efficace, strettamente connesso con altre politiche settoriali, che prevede la regionalizzazione del territorio cantonale, in sintonia col nuovo Piano direttore cantonale. In una prima fase, la priorità d’azione in termini aggregativi si è concentrata nelle zone periferiche ed ha interessato principalmente “piccoli Comuni” caratterizzati da gravi problemi di carenza di risorse umane e finanziarie e da una struttura demografica debole e territori ampi ed onerosi da gestire. I progetti, ribattezzati anche “aggregazioni di necessità” e finanziati con lo stanziamento di un credito quadro di 120.000.000 di franchi, rispondevano quindi a un chiaro bisogno di rafforzamento finanziario e amministrativo degli Enti locali attraverso un dimensionamento, se non ideale, quantomeno minimo per consentire una significativa gestione della cosa pubblica riguadagnando un certo margine di autonomia (finanziaria e decisionale) e una nuova forza contrattuale, presupposti per altro necessari per la promozione e il sostegno ad iniziative di sviluppo su scala locale. In modo quasi spontaneo, il processo aggregativo ha successivamente interessato Comuni non caratterizzati da particolari problemi o carenze, ma che hanno percepito la riforma istituzionale come un’opportunità per conseguire obiettivi altrimenti improponibili e irraggiungibili singolarmente. Grazie a questo percorso, infatti, le Amministrazioni hanno potuto sviluppare nuove modalità di gestione dei propri processi e di interazione con cittadini ed imprese, facendo ricorso soprattutto alle nuove tecnologie, prima precluse a causa della scarsità sia di risorse economiche sia di competenze.
Dall’avvio del processo di aggregazione ad oggi il numero di comuni ticinesi è sceso da 245 a 135, con un calo percentuale del 45%. Questa riduzione è il risultato di 31 progetti aggregativi che hanno coinvolto 133 dei 245 comuni che esistevano nel 2000, in alcuni casi per più volte successive (per due volte Bioggio, Capriasca, Collina d’Oro e Faido e per tre volte Lugano e Mendrisio). In totale, quindi, sono stati costituiti 23 nuovi Comuni e ne sono “scomparsi” 133. Spostando l’attenzione sulle dimensioni, se nel 2000 i Comuni ticinesi avevano mediamente 1.300 abitanti, oggi, grazie all’ampio processo aggregativo, la dimensione media dei Comuni ticinesi è raddoppiata (circa 2.500 abitanti).
Uno degli obiettivi dichiarati delle aggregazioni è riconsegnare autonomia all’Ente Locale da diversi punti di vista, compreso quello finanziario. Un rapporto della Repubblica e Cantone Ticino (Sezione degli Enti Locali) ha confrontato la spesa media per abitante nei tre anni precedenti l’aggregazione (2001-2003) riferita all’insieme degli ex-comuni poi aggregati con le spese medie pro-capite per gli anni 2007-2008 del nuovo comune. Da questo confronto emerge una generalizzata diminuzione nominale della spesa per abitante, salvo un leggero aumento nel caso di Lugano. Raffrontando l’evoluzione della spesa, gli effetti più significativi di diminuzione si sono manifestati nelle categorie dove il margine d’autonomia decisionale del Comune prima dell’aggregazione era relativamente basso, in particolare quanto agli oneri finanziari del debito (interessi e ammortamenti) e alla collaborazione intercomunale (rimborsi a enti pubblici). Ciò si spiega in larga misura da una parte per l’effetto degli importanti risanamenti cantonali effettuati nell’ambito dell’aggregazione, che riducono gli oneri finanziari, e d’altra parte a seguito dello scioglimento di collaborazioni intercomunali per compiti che sono così ripassati direttamente in mano al nuovo Comune. L’aggregazione ha quindi portato a un maggior livello di autonomia e di efficienza nelle decisioni sulla spesa corrente, soprattutto nei Comuni di piccola e media dimensione, mettendo a disposizione delle rinnovate strutture nuove risorse da investire nello sviluppo degli Enti.
Spostandosi dal lato delle Amministrazioni a quello dei cittadini, nell’autunno 2009 l’Ufficio cantonale di statistica ha interpellato 4.056 residenti di quattro dei nuovi Comuni (Acquarossa, Capriasca, Lugano e Maggia) evidenziando, un’ampia soddisfazione nei confronti dell’aggregazione e della conseguente adozione di nuovi modelli organizzativi e tecnologici. Questo rispecchia, in larga parte, le posizioni favorevoli già espresse durante il voto consultivo, a cui si aggiunge l’apprezzamento di chi, in prima battuta, si era opposto all’unione.
Cosa rende la Svizzera diversa dall’Italia? Perché qui le fusioni vengono realizzate con il consenso e la soddisfazione sia della parte politica sia dei cittadini? Le parole chiave per comprendere il successo di questo cambiamento sono due: coinvolgimento e vantaggio. In particolare, il coinvolgimento si muove su due binari: da un lato, si evidenzia una convinta regia Cantonale, attenta agli aspetti normativi, al coinvolgimento dei politici locali nelle scelte e, soprattutto, allo studio di elementi quantitativi ed oggettivi a supporto delle decisioni; dall’altra, si registrano processi partecipativi dei cittadini sul territorio finalizzati a una condivisione del cambiamento, stressando, ancora una volta, con elementi oggettivi le opportunità offerte dalla fusione. Oltre alla partecipazione, è proprio la quantificazione dei vantaggi ad aver rappresentato l’altra chiave del successo per le fusioni ticinesi. Risparmi, in termini di spesa, che, come visto, rappresentano cifre importanti. Dati alla mano, sono i numeri che contano e che potrebbero contare anche in Italia, trasformandosi in nuova capacità di investire sui temi chiave per il rinnovamento della PA italiana come quelli, parzialmente ancora sulla carta, quali quelli dell’Agenda Digitale.