Governance, digitalizzazione della PA e riforma delle procedure di reclutamento del pubblico impiego sono gli ingredienti senza i quali il PNRR è destinato ad arenarsi in una interminabile controversia fra Governo italiano e istituzioni europee, invece di decollare verso la ripresa del paese.
Una panoramica dei fronti critici da affrontare.
Competenze digitali “fil rouge” del PNRR: così tutti potremo beneficiare della transizione
PNRR, i passi avanti della versione finale
Rispettando le indicazioni fornite dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, nella sua audizione in Parlamento a Commissioni riunite, nella stesura della versione finale del PNRR consegnato a Bruxelles l’esecutivo ha teso a privilegiare progetti e linee di intervento la cui attuabilità si contraddistinguesse in virtù di effetti positivi il più immediati e rapidi possibile. Sebbene sia ancora necessario fare qualche passo in avanti, che probabilmente verrà richiesto anche dalla Commissione europea, rispetto alla chiara definizione, per ciascuna delle linee progettuali di cui si compone il Piano, precisi output, outcome e impatti sul breve, medio e lungo periodo.
Dando un rapido sguardo alle Schede tecniche che nelle settimane scorse il governo Draghi aveva iniziato a produrre, a integrazione dell’ultima versione del documento licenziata dal governo Conte II e prima ancora di mettere in circolazione quella destinata al confronto con il Parlamento, si nota come siano finalmente comparse alcune prime stime puntuali delle conseguenze economiche e sugli equilibri di finanza pubblica rispetto alle diverse componenti di Piano. Vi si trova inoltre l’indicazione delle scadenze temporali per la realizzazione delle linee di intervento. Ma non si va oltre questo, cioè ancora del tutto assente è la chiara individuazione di esiti attesi e impatto nel medio/lungo termine delle singole misure di investimento. Quando viceversa le capacità potenziali degli interventi previsti dal Piano di modificare il contesto socioeconomico del nostro paese e le condizioni dei destinatari delle singole politiche, siano essi cittadini o imprese, è certamente uno dei punti sui quali la Commissione europea porrà maggiormente la sua attenzione. E lo farà sia per valutare l’efficace implementazione del Piano rispetto al procedere dell’erogazione delle risorse sia per stabilire in che misura gli investimenti finanziati saranno stati in grado di produrre un reale cambiamento rispetto ai limiti strutturali che, rispetto a una serie di indicatori, ne fanno purtroppo uno dei fanalini di coda dell’Unione Europea.
Possiamo inoltre dare per certo che la Commissione europea vorrà evitare una distrazione delle risorse assegnate attraverso il Recovery Fund verso spese improduttive, cioè incompatibili con quegli investimenti strutturali e di lungo periodo alla cui realizzazione il programma è finalizzato.
La governance dei programmi d’investimento
Rispetto alle verifiche sulla qualità della spesa, risulta fondamentale stabilire chi avrà la responsabilità dei diversi programmi di investimento. E veniamo così al tema decisivo della governance, rispetto al quale si è già fatto qualche importante passo avanti, dal momento che il governo Draghi ha indicato il Ministero dell’Economia e delle Finanze come coordinatore unico e ha stabilito che a interfacciarsi costantemente con Bruxelles sarà una struttura incardinata nella Ragioneria generale dello Stato.
Ma il modello di governance delineato dall’esecutivo prevederebbe, oltre a un gruppo di consiglieri interni e esterni alla PA, anche altri tasselli fondamentali, in particolare, due Comitati interministeriali, incaricati di monitorare i programmi di azione rispetto ai due obiettivi trasversali alle diverse missioni della transizione ecologica e digitale, e un raccordo strutturato con le diverse amministrazioni pubbliche competenti, ai diversi livelli, rispetto agli specifici settori di intervento. E finora sia la fisionomia della cabina di regia interministeriale sia l’architettura multilivello relativa al perimetro dei poteri d’intervento delle diverse amministrazioni nazionali e locali coinvolte nei programmi di investimento non sono state ancora specificate. Sebbene la Commissione europea attenda chiarimenti in proposito entro la metà del mese di maggio e ciò impone una certa celerità nel completamento del modello. Infine, occorre ancora determinare con chiarezza i metodi di supervisione e rendicontazione inerenti all’attuazione delle diverse linee di azione, un aspetto al quale la burocrazia europea di solito tiene molto. Anche se sappiamo che la cultura amministrativa del nostro paese e dei suoi funzionari pubblici da sempre è poco attenta al tema della valutazione delle politiche pubbliche. Quando, viceversa, la valutazione può davvero considerarsi a pieno titolo l’altra faccia della governance, ovvero l’indispensabile architrave sul quale, insieme alla governance, poggia l’implementazione efficace delle politiche pubbliche. Purtroppo, nelle differenti versioni del Piano che si sono finora succedute, compresa quella finale, inviata dal governo Draghi alla Commissione europea, non si è mai entrati nel merito della metodologia e delle tecniche specifiche da mettere in campo per la supervisione e la rendicontazione dei diversi progetti: obiettivi temporalmente (breve, medio e lungo periodo) e funzionalmente (output, outcome e impatto sistemico) differenziati, indicatori di risultato, valutazioni di scostamento, eventuali strategie correttive. Sono i pezzi di una cassetta degli attrezzi che in moltissime amministrazioni pubbliche del mondo occidentale, a cominciare da quelle anglosassoni, sono ormai di casa. Ma che nella realtà italiana, anche negli apparati amministrativi più qualificati (si pensi, a titolo di esempio, al MEF) faticano ancora ad avere piena cittadinanza.
Il ruolo della PA nella governance del PNRR
Protagonista indiscusso della governance così come del processo di implementazione e valutazione delle politiche che saranno introdotte dal PNRR non potrà che essere la Pubblica amministrazione. Un fronte assai critico che, insieme a pochi altri, come la riforma della giustizia (riforma del processo civile e penale, altra questione oggetto del Piano), le riforme istituzionali e le misure per la tutela della concorrenza di mercato, è da tempo motivo di forte attenzione da parte delle istituzioni europee, che proprio rispetto a questi temi non mancano occasione per segnalare il loro scetticismo verso la reale capacità del nostro paese di intraprendere in maniera credibile la strada del cambiamento. E qui occorre intervenire almeno su due distinti livelli, entrambi richiamati dal Piano.
Il primo, previsto dal PNRR, è quello relativo ai programmi di investimento collegati alla Prima Componente della Prima Missione (M1C1), inerente alla digitalizzazione della Pubblica amministrazione.
Il secondo, soltanto accennato all’interno del Piano, sebbene sia altrettanto importante del primo, e in quanto tale meritevole di attenzione e di risorse, è quello relativo a una più generale riforma della burocrazia pubblica, come condizione necessaria per poter concretamente trarre vantaggio dalla transizione digitale della PA, a partire dai meccanismi di selezione e reclutamento del personale, oltre che degli incentivi collegati ai percorsi di carriera, fino alla semplificazione amministrativa, in modo particolare dei procedimenti di autorizzazione.
Per quel che concerne il primo aspetto, il Piano prevede investimenti per la diffusione delle competenze digitali, oltre che per disseminare, razionalizzare e mettere in sicurezza i sistemi informatici di cui si avvale la Pubblica amministrazione.
Per quel che invece riguarda il secondo aspetto, nello stesso Piano viene esplicitata la necessità di integrare le linee di azione sulla digitalizzazione con interventi di carattere ordinamentale e a “costo zero”, volti a definire una cornice in grado di favorire il cambiamento. Tali interventi vengono infatti classificati come “riforme abilitanti”, ovvero propedeutiche agli investimenti contemplati dal Piano in quanto necessarie alla loro realizzazione entro i tempi previsti. Fra di essi, occorre principalmente menzionarne due: la semplificazione amministrativa e il reclutamento del personale, che sono strettamente correlati fra loro.
La semplificazione amministrativa
In primo luogo, la semplificazione amministrativa, finalizzata a rendere più efficace ed efficiente l’azione verso cittadini e imprese, che dovrebbe risultare propedeutica sia alla razionalizzazione normativa sia alla reingegnerizzazione digitale delle pratiche di autorizzazione, aspetto peraltro decisivo ai fini di un’efficace implementazione degli stessi investimenti previsti dal Piano nelle diverse missioni e componenti. Un primo passo in questa direzione dovrebbe riguardare la ricognizione dei procedimenti amministrativi, che peraltro avrebbe già dovuto completarsi entro cento giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge semplificazioni dello scorso anno. Allo scopo sia di snellire le procedure sia di rendere più omogenea la modulistica. Si tratta quindi di un aspetto molto importante, non solo per le conseguenze positive che può produrre sull’utenza, ma anche ai fini dell’interoperatività dei dati e del clouding, per cioè realizzare finalmente la piena condivisione delle informazioni fra diversi uffici della Pubblica amministrazione (cosa, peraltro, già prevista, anche se finora mai realizzata, dalle cosiddette Leggi Bassanini). La moltiplicazione a dismisura di regole, procedure e modulistica – infatti – renderebbe tale condivisione assai difficile o costosa.
Reclutamento e selezione del personale pubblico
In secondo luogo, le procedure di reclutamento e selezione del personale pubblico, oltre che le dinamiche di carriera, con l’apertura alla mobilità dei dipendenti fra diverse amministrazioni, finalizzate ad assecondare un turn-over che, oltre a garantire quel ricambio generazionale reso ormai necessario da ragioni anagrafiche (già previsto dal Piano a spesa costante), permetta l’ingresso nella macchina amministrativa dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali di competenze nuove sia per qualifiche più elevate sia per profili di carattere tecnico-specialistico.
Poiché la digitalizzazione della Pubblica amministrazione rappresenta prima di tutto un cambiamento culturale, è indispensabile che essa avvenga nel quadro di un rinnovamento complessivo del personale pubblico, dove l’ingresso di una nuova generazione di nativi digitali sia accompagnata dall’acquisizione di risorse umane in grado di modificare radicalmente l’attuale skill mix presente nel comparto pubblico, attraverso una progressiva riduzione delle competenze di stampo amministrativo e generalista a vantaggio di un significativo incremento di un know-how specializzato in discipline scientifiche e scienze comportamentali. Se la transizione digitale avrà il successo che ci si attende, le amministrazioni pubbliche, dai comuni agli apparati dello Stato centrale, commuteranno nel formato digitale gran parte delle procedure amministrative, a cominciare da quelle di autorizzazione che riguardano le attività di cittadini e imprese, che oggi sono svolte da personale amministrativo generalista. E dal punto di vista organizzativo, quei profili andranno rapidamente ad esaurirsi. Andrà viceversa crescendo sempre più la richiesta di personale tecnico, dotato di competenze specialistiche, necessario ad assolvere le funzioni legate alla realizzazione, monitoraggio, valutazione di politiche pubbliche la cui crescente complessità potrà essere gestita solo attraverso la piena integrazione fra strumenti digitali e risorse umane qualificate. Già oggi, alcune amministrazioni comunali stanno sperimentando procedure di selezione del personale volte ad assecondare il ricambio in direzione di profili tecnico-specialistici, anche se spesso sono ancora costrette a scontrarsi con la rigidità della normativa sul reclutamento del personale pubblico, con il timore dei commissari e degli uffici di restare impigliati in qualche ricorso e con la miopia di coloro che non riescono ancora a capacitarsi del fatto che la transizione digitale della PA implichi un cambiamento di paradigma anche rispetto alle competenze dei pubblici funzionari.
Il Syllabus “Competenze digitali per la PA”
Il rapporto fra reclutamento nel pubblico impiego e semplificazione amministrativa è quindi strettamente connesso a un’efficace realizzazione della transizione digitale. Già alla fine dello scorso anno l’Ufficio per l’innovazione e la digitalizzazione del Dipartimento della Funzione pubblica ha provveduto a emanare un Syllabus dal titolo “Competenze digitali per la PA”, in cui veniva descritto l’insieme delle conoscenze e abilità che ogni dipendente pubblico, non specialista IT, dovrebbe possedere per essere parte attiva nella trasformazione digitale del nostro apparato burocratico (un modo un po’ edulcorato per indicare le condizioni necessarie a fare in modo che la transizione digitale non si trasformi in un flop!). Tali conoscenze e abilità venivano indicate in maniera scalare, rispetto a cinque aree di competenza (dati e informazioni, comunicazione e condivisione, sicurezza, servizi on line, trasformazione digitale), secondo una declinazione in tre livelli: base, intermedio, avanzato. Ma la rivoluzione digitale, nella società prima ancora che nella Pubblica amministrazione, corre veloce. E quindi occorre evitare effetti di crowding out, per cui il livello di competenze digitali su cui si attesta la macchina amministrativa dello Stato possa risultare “spiazzato” dal crescente livello di competenze indotto spontaneamente dal procedere della transizione.
In altre parole, dobbiamo evitare che la PA rincorra l’evoluzione sociale e in un modo già dominato dai social media questo rischio è assai concreto. Se osserviamo le conoscenze e abilità minime richieste da ciascun livello di padronanza, ci rendiamo immediatamente conto di come sia sostanzialmente inefficace operare affinché ogni dipendente pubblico raggiunga almeno il livello base. Già nei prossimi anni, infatti, e a maggior ragione se il PNRR e le sue linee di intervento saranno implementate in maniera efficace, sarà necessario avere un pubblico impiego mediamente attestato su un livello di padronanza intermedio, quando non addirittura avanzato. Non dobbiamo infatti trascurare che con il procedere della digitalizzazione il livello di padronanza base verrà rapidamente occupato, grazie al ricorso alle tecnologie dell’ICT, da programmi e applicazioni costruite sulla base di semplici algoritmi di AI che saranno in grado di operare senza l’impiego di risorse umane. E se pensiamo che il capitale umano attualmente impiegato nelle amministrazioni italiane è, oltre che anziano, poco qualificato e male attrezzato di fronte alla sfida della digitalizzazione (come ci dicono gli stessi Rapporti del Dipartimento della Funzione Pubblica sullo “stato dell’arte”), comprendiamo immediatamente che calibrare l’impatto di un intervento sul pubblico impiego sull’aumento dei dipendenti pubblici con competenze digitali “almeno di base” rappresenta un obiettivo che rischia di essere anacronistico e pertanto del tutto inefficace.
La transizione digitale della PA è una sfida che deve essere giocata con la massima rapidità, nella consapevolezza che l’impatto dell’ICT non aspetterà l’adeguamento della macchina amministrativa. La proposta di riforma recentemente avanzata dal Ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che ha avuto anche l’assenso delle rappresentanze confederali dei lavoratori della Funzione Pubblica, rappresenta un primo importante passo in avanti. Si tratterà di vedere se le criticità che tale proposta intende affrontare, quali per esempio la revisione dei meccanismi di selezione del personale e l’incremento dei profili tecnici basati su effettive abilità gestionali (oltre che su caratteristiche psico-attitudinali congeniali al cambiamento, come la resilienza e l’apprendimento rapido), saranno concretamente affrontate e risolte.