Dopo un buon decennio di retorica sulle smart city, è forse il caso di riproporre in termini parzialmente diversi la questione del ruolo delle tecnologie nel governo del territorio.
Per smart city si è inteso, finora, qualsiasi intervento tecnologico nei comuni italiani, senza tenere conto di due questioni piuttosto evidenti: in primo luogo, non è “città” (e, dunque, non può essere smart city) la gran parte dei Comuni italiani, troppo piccoli e caratterizzati da fenomeni di vita sociale ben diversi da quelli di un centro urbano; in secondo luogo, per parlare di città “smart” non dovrebbe bastare un intervento settoriale, quando manchi un approccio integrato all’uso delle tecnologie per la modernizzazione delle forme del governo urbano.
Alla luce delle caratteristiche del sistema amministrativo locale italiano, è forse il caso, su queste due tracce, di allargare il discorso, portando in primo piano l’importanza fondamentale che potrebbero avere le tecnologie, se usate come il principale fattore abilitante di un diverso modo di fare amministrazione locale nei tanti (quasi 8.000) enti del sistema comunale italiano.
L’Italia è un Paese policentrico, che ha nella articolazione (che non è sempre frammentarietà) dei suoi spazi di antropizzazione una delle sue principali caratteristiche.
Ha quasi 8.000 comuni, circa 100 province, 20 regioni, molto differenti per estensione, numero di abitanti, orografia. Un Paese che in un suo bel libro Giorgio Ruffolo definiva “lungo lungo”, polarizzato tra un sistema urbano complesso e articolato e mille “aree interne” a rischio di spopolamento e penalizzate nei servizi di cittadinanza, ma dai grandi valori ambientali e sociali.
Si tratta di una complessità ineliminabile, e anzi da valorizzare; una complessità che non può essere domata dal riduzionismo amministrativo di questi anni, che hanno visto quasi decuplicato il contributo delle Regioni e degli enti locali al patto di stabilità europeo. E però si tratta di una complessità che deve essere governata, mantenendo la capacità dei singoli “luoghi” del potere amministrativo di autorappresentarsi, dando delega a classi dirigenti capaci di vera politica di territorio; ma, al contempo, ricercando livelli di maggiore efficacia (prima ancora che efficienza) dell’azione amministrativa concreta, attraverso forti sinergie operative, concentrazione e professionalizzazione delle funzioni, adozione di logiche strategiche su più larga scala, aggregazione delle strutture di servizio e di svolgimento delle funzioni, secondo criteri moderni di efficienza scalare.
La legge 56 del 2014 (la nota “legge Delrio”, a volte, pare, più criticata che letta e interpretata nelle sue non banali potenzialità di rigenerazione del governo locale) ha aperto una direzione di marcia chiara in questo senso. Troppo poco, però, è poi accaduto, per colpa in parte di un “centro” che non ha dispiegato le azioni di accompagnamento e trasferimento delle buone pratiche che la legge stessa prevedeva (si veda il comma 149); ma in parte anche dei luoghi, che non hanno sviluppato uno “sguardo” sul proprio futuro all’altezza della sfida di modernizzazione di cui il Paese ha bisogno e che quella legge delegava loro a compiere.
Una sfida, è il caso di ribadirlo a chiare lettere, che non può concentrarsi in quella cinquantina di centri urbani più o meno grandi; e men che mai solo nelle 14 città che la legge stessa ha voluto “metropolitane”.
Nella complessità del sistema amministrativo, occorre che una trasformazione profonda dei modi di amministrare, che le tecnologie consentono, si estenda al ricco tessuto del sistema amministrativo locale, anche nelle sue componenti più piccole (ma non minori).
Sono anzi proprio esse a poter beneficiare maggiormente dell’impatto delle tecnologie, per le potenzialità di condivisione dei back office, di semplificazione dei processi, di immediatezza di relazione con gli utenti che esse consentono.
Da questo punto di vista, molto sta accadendo in singoli luoghi; ma senza quell’effetto “di sistema” che alla luce della disciplina di legge potrebbe prodursi.
Le non poche “community di innovazione” originate, ad esempio, dal Programma Elisa del Dipartimento per gli Affari Regionali della Presidenza del Consiglio stanno non solo portando a grandi salti di qualità del funzionamento degli enti che cooperano sulle piattaforme di servizio prodotte; ma anche a un interessante sforzo di omologazione e adesione da parte di singole realtà tagliate fuori, finora, dai processi di modernizzazione tecnologica degli enti più avanzati.
È il caso della comunità del GIT, nata tra Umbria e ANCI Lombardia; o di quella del P@doc, che da Padova ha aggregato altre realtà sparse in molte Regioni; e l’elenco potrebbe continuare.
Anche realtà che in autonomia hanno lavorato sulla base dell’aggregazione dei bisogni e delle relative soluzioni hanno avuto risultati notevoli, e si candidano oggi a condividere le soluzioni elaborate con quei territori che sono più indietro.
È il caso, eccellente in Italia, della piattaforma Comunweb elaborata dal Consorzio dei Comuni trentini sulla base dell’intero (quasi) territorio della Provincia Autonoma.
Questa stagione dei cento fiori deve però ora lasciare spazio a un più convinto sforzo di sistema, che faccia della tecnologia il driver principale di rilancio della Italia (non) minore dei Comuni più piccoli, ma spesso dalla più elevata qualità della vita.