Il dottor Annthok Mabiis, nell’anno 2333, ha annullato tutte, o quasi, le memorie connesse della galassia per mezzo del Grand Ictus Mnemonico. “Per salvare uomini e umanidi dalla noia totale, dalla Sindrome della Noia Assoluta”, perché le memorie connesse fanno conoscere, fin dalla nascita, la vita futura di ciascuno, in ogni particolare. La Memory Squad 11, protagonista di questa serie, con la base di copertura su un ricostruito antico bus rosso a due piani, è incaricata di rintracciare le pochissime memorie connesse che riescono ancora a funzionare. Non è ancora chiaro se poi devono distruggerle o, al contrario, utilizzarle per ricostruire tutte quelle che sono state annientate, se devono cioè completare il lavoro del dottor Mabiis o, al contrario, riportare la galassia a “come era prima”.
“È solo una specie di rito ormai, ma comunque quando due tutor arrivano lassù… e uno dei due deve salire al vertice… un confronto finale è sempre spettacolare… carino insomma…” sottigliava la comandante Khaspros.
“Comunque agenti, quest’anno ci siamo noi, anche noi, soprattutto noi… otto mesi fa c’è stato il grande ictus mnemonico… da quel momento ci sono le nostre squadre che cercano di recuperare le memorie connesse rimaste…” la comandante svuotava il fiato.
“A noi non interessano le parole che stanno dicendo i due tutor contendenti, noi dobbiamo seguire le loro espressioni facciali, i loro gesti… il linguaggio del loro corpo… Se i due tutor sono degli umanidi, come si vocifera, allora tutte quelle loro mosse sono regolate da memorie connesse attive… dunque, agenti, faremmo caccia grossa…” gli occhi brillavano. L’appetito è un compagno inseparabile.
La platea era globale. Miliardi di votanti simbolici seguivano ogni anno il duello. Per tradizione. Per rispetto della policrazia. Per sentimento comune. Per immaginazione assiepata. Per una musica ricordata. Una poesia interrotta. Una frase condotta. Un silenzio abbracciato. Un mutismo sognato.
Lui alzava e abbassava l’indice. Preciso come un filo a piombo.
Lei sorrideva in maschera.
Lui un sorso d’acqua.
Lei mordeva la rabbia.
I vetri si abbluavano. Dall’acqua sottostante. I duellanti muti. Conversavano le loro gote. Le loro spalle. I fianchi stanchi. Le fronti. Architravate. Frammentate.
Lui a bagnarsi le labbra.
Lei distendeva il palmo.
Lui col bicchiere in mano.
Lei ascoltava immobile.
Gli agenti sfioccavano dal bus rosso a due piani. Avanzavano. Avvicinavano. I plaudenti arrossavano. Del tramonto. Le mani fracassavano. Di applausi. Le grida affasciavano. Di consensi. La città silenziava il porto. Affollava le inquietudini. Le strade accoglievano. La notte. Le gocce livide. Irrequiete. Salmastre.
Lui a stringere gli occhi.
Lei guardava gli occhi.
Lui dall’alto in basso.
Lei piegava il collo.
Lui con smorfia schifata.
Lei silenziava la bugia.
Lui con mano armata.
La comandante: “Agenti, fatevi sotto, la riconosco quella mossetta delle spalle!… nei secoli è rimasta famosa! È la shimmy!… È la mossetta chiamata Hillary!”
(“Perché si chiama così?”)
(“Boh? Non saprei…”)
(138 – continua la serie. Episodio “chiuso”)
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