La recente pubblicazione della Relazione sui progressi del settore digitale in Europa (EDPR) da parte della Commissione Europea, basata in modo particolare (ma non soltanto) sull’analisi del Digital Economy and Society Index (DESI), è un’occasione importante di riflessione su alcuni ambiti più critici dello sviluppo del digitale in Europa, e in particolare, grazie ai rapporti specifici per Paese, in Italia.
Naturalmente non ci sono novità assolute, sappiamo bene che l’Italia fa parte del gruppo di paesi che registra basse prestazioni, insieme a Romania, Bulgaria, Grecia, Croazia, Polonia, Cipro, Ungheria e Slovacchia.
Certamente c’è però la conferma di una valutazione che abbiamo spesso condiviso su agendadigitale.eu: la causa principale del ritardo italiano nello sviluppo del digitale risiede (soprattutto) nella mancanza di due elementi fondamentali, approccio sistemico e governance.
Questo emerge in particolare nelle considerazioni finali della Relazione rispetto allo stato di evoluzione italiano sul fronte dei servizi digitali pubblici. Qui, dopo aver evidenziato che l’Italia ha prestazioni inferiori alla media nella dimensione dei servizi pubblici digitali e nell’ultimo anno ha perso posizioni in classifica, la Relazione si sofferma sul fatto che la “disponibilità di servizi pubblici online è al di sopra della media dell’UE, ma non ha mantenuto il passo con il miglioramento dei servizi di governo elettronico in altri paesi”. Da qui il passaggio conclusivo è sul ritardo dei progetti strategici nazionali come PagoPA, SPID (con una previsione governativa di tre milioni di utenti al settembre 2015 a fronte di quasi un milione e mezzo effettivi al 10 giugno 2017) e soprattutto ANPR. Ritardo che si ricollega, appunto, a carenze di coordinamento e di governance.
Mi sembra però che i due più interessanti ambiti di approfondimento dell’EDPR per l’Italia siano quelli relativi alla “intensità digitale” delle imprese e alle competenze digitali (e all’uso di Internet).
L’intensità digitale delle imprese
Rispetto all’indice di intensità digitale delle imprese (indice composito che combina la disponibilità nell’impresa di 12 tecnologie, dall’utilizzo della rete da parte dei dipendenti alla fatturazione elettronica e al fatturato sul commercio elettronico) l’Italia registra oltre il 60% delle imprese con un valore dell’indice molto basso, collocandosi così davanti soltanto a quattro Paesi (Lituania, Bulgaria, Romania, Ungheria).
Certamente contribuisce la debolezza della domanda di digitale (l’uso del commercio elettronico da parte della popolazione è tra i più bassi in Europa), e la dimensione delle imprese (in Italia prevalgono le PMI). In particolare è evidente che sul commercio elettronico la situazione sta peggiorando e “l’Italia sta perdendo terreno rispetto ad altri paesi, in cui le imprese iniziano a vendere online in numero sempre maggiore”.
Nella stessa logica, l’alto tasso di utilizzo delle soluzioni cloud sembra dipendere dai fattori combinati della dimensione e della scarsezza di risorse, e non da scelte strategiche (che non si rilevano, infatti, sul fronte della vendita e dei processi di business). La Relazione così commenta: “Poiché i costi delle soluzioni informatiche possono essere molto elevati per le imprese italiane, principalmente di piccole dimensioni, sono comuni le soluzioni basate su cloud”.
Diversa, o comunque con sfaccettature diverse, la situazione delle grandi imprese. Qui, infatti, in alcune aree di “avanguardia” come quella dei big data, l’Italia registra prestazioni migliori di Germania, Francia, Spagna.
Cosa sta facendo l’Italia?
Dal punto di vista della connettività, chiaramente condizione necessaria e abilitante, a fronte di una buona strategia nazionale (con assegnazione significativa di fondi), ci sono anche qui problemi di governance e di sistematicità di approccio. La Relazione suggerisce, infatti, che “il completamento tempestivo delle procedure di gara in corso e un approccio più coordinato tra le iniziative esistenti, ad esempio il coordinamento tra i diversi esercizi di mappatura, sono entrambi importanti per raggiungere tale obiettivo, in particolare nelle zone rurali”.
Su questo fronte sembra purtroppo isolata e poco replicabile (almeno nel breve) la buona pratica (premiata) di Net4all, partenariato pubblico-privato per la banda larga ultraveloce nelle aree industriali soggette al divario digitale e che, secondo la Commissione Europea è “un esempio di successo di collaborazione tra investimenti pubblici e privati che porta entrate e valore”. Questo progetto della Regione Emilia-Romagna mira a investire nella creazione di una rete di banda larga ultra-veloce che serva la pubblica amministrazione e le imprese allo stesso tempo. Net4all è basato sul riutilizzo di infrastrutture pubbliche esistenti passive e sul co-investimento con imprese per costruire reti nuove. Certamente un approccio che sarebbe utile riuscire a proporre anche in altri territori.
Il cambiamento nell’ambito del digitale si attende principalmente, a livello di strategia nazionale, dall’attuazione del piano italiano Industria 4.0. Il Piano rischia però di non raggiungere gli obiettivi per gli stessi problemi che si presentano per “l’execution” delle altre strategie nazionali (quando ci sono): mancanza di coordinamento nell’attuazione, lentezza burocratica, sottovalutazione del problema culturale e della resistenza al cambiamento. Secondo la Relazione, infatti, “solo alcuni dei poli di innovazione digitale progettati sono operativi e i centri di competenza non saranno aperti prima della seconda metà dell’anno, con il rischio che una quota importante delle deduzioni fiscali possa essere stanziata in modo improprio. La capacità di sensibilizzare le PMI in merito alle opportunità offerte dalle tecnologie digitali e, in ultima analisi, il successo della strategia Industria 4.0 dipenderanno dal corretto coordinamento tra i vari attori [..]”.
Probabilmente anche qui una gestione programmatica più attenta alle dinamiche del cambiamento e del project management potrebbe consentire di intervenire rapidamente su rischi così evidenti ed elevati.
Competenze digitali e uso di Internet
Innanzitutto, un primo dato di dettaglio, non scontato: l’Italia è ultima in Unione Europea per utilizzo di Internet con dispositivi mobili (sotto il 40% degli utenti Internet) a fronte dell’88% della Spagna, che è prima. Poiché l’Italia è tra i Paesi con maggiore diffusione di dispositivi mobili, la correlazione di opinione comune tra la diffusione degli smartphone (e della banda larga mobile) e la diffusione di Internet si rivela chiaramente poco significativa. Almeno in Italia.
E questa valutazione spinge anche la Relazione europea a porre al centro del ritardo italiano proprio il problema della carenza di competenze: “Le prestazioni a rilento dell’Italia dipendono essenzialmente dagli utenti. Bassi livelli di competenze digitali comportano risultati mediocri in diversi indicatori: diffusione della banda larga, numero di utenti di internet, partecipazione in una serie di attività su internet (tra cui il governo elettronico), uso del commercio elettronico e numero di curriculum nel settore digitale (ossia, lauree in STEM – scienze, tecnologia, ingegneria e matematica – e specialisti delle TIC – tecnologie dell’informazione e della comunicazione)”.
L’altra considerazione interessante della Relazione è quando pone in stretta correlazione il basso livello di competenze digitali e la difficoltà del sistema economico: “L’uso regolare di internet tra la popolazione è aumentato di 4 punti percentuali, sebbene le prestazioni dell’Italia siano ancora tra le più basse e inadeguate per le esigenze di un’economia vasta e avanzata quale quella italiana. In effetti, il fatto che l’indicatore relativo agli specialisti delle TIC e quello relativo ai laureati in STEM siano rimasti invariati indica che l’offerta di forza lavoro con competenze digitali è limitata, fattore che restringe le possibilità del sistema economico italiano di progredire nella catena globale del valore, convertendosi a modelli commerciali digitali”.
Il problema è cruciale e pervasivo, al punto che la Relazione si cimenta in una riflessione che non si dovrebbe associare a un Paese tra i “Grandi” dell’Unione Europea: “considerato il basso livello di competenze digitali della popolazione italiana, è più che mai importante che i servizi di governo elettronico siano di semplice utilizzo per l’utente.” Insomma: prendete coscienza che il dato di fatto è quello di una consapevolezza digitale talmente bassa che bisogna abbassare il livello di difficoltà di interazione, consentendo l’uso dei servizi digitali senza pretendere che si possano realizzare operazioni complesse. Perché, con un po’ di eufemismo, “gli italiani non sono grandi utilizzatori di servizi online complessi”.
Di fronte a una situazione così grave ed emergenziale ci si attenderebbe uno sforzo strategico adeguato e complessivo. Un approccio sistemico, con la capacità di mobilitare tutte le energie verso uno sviluppo coordinato, solido, continuo. Invece, oggi la strategia italiana “si dimostra adatta per quanto concerne l’offerta di competenze digitali destinata ai giovani, benché la sua efficacia dipenda in gran parte dall’allineamento con le esigenze delle imprese (e dall’attuazione della strategia Industria 4.0)”, oltre che, aggiungo, alla rapidità e omogeneità di attuazione del Piano Nazionale Scuola Digitale e delle misure su Ricerca e Università. Ma la strategia si ferma, in gran parte, qui, poiché: “non sembra esservi una sufficiente pianificazione strategica per colmare le lacune delle precedenti generazioni in termini di competenze digitali”. Da questo punto di vista, come si può rilevare, il Piano Triennale per l’informatica della PA inserisce un utile e positivo tassello di azione (per la definizione dei profili professionali e la realizzazione di moduli formativi) che non può essere chiaramente sufficiente. Manca, è evidente, non solo una strategia complessiva ma anche l’individuazione di “chi” dovrebbe coordinare le azioni, il “process owner”. Nel tempo sono state proposte più soluzioni, ma la mancanza di comprensione di questa emergenza a livello governativo (e quindi della necessità di provvedere rapidamente) diventa ogni anno di più senza giustificazioni e senza ragioni. Lo scrive nero su bianco la Commissione Europea, serve altro per inserire il tema nell’agenda delle urgenze?