Investire nella digitalizzazione del Paese, sostenendo gli attuali punti di forza e colmando i ritardi presenti è un’azione ad alto ritorno economico che risulta cruciale anche alla luce del trend di produttività stagnante dell’Italia negli ultimi 20 anni.
Digitalizzazione e produttività: il divario italiano
Dagli anni 2000, infatti, l’Italia ha accumulato un divario di produttività verso tutte le principali economie europee. Considerando il Valore Aggiunto per occupato (a prezzi costanti), il differenziale cumulato dall’Italia tra il 2000 e il 2022 è stato pari a -12,8 punti percentuali con la Spagna, -15,0 p.p. con la Francia, -16,3 p.p. con la Germania, -19,9 p.p. con il Regno Unito e -22,3 p.p. con la media UE.
La performance negativa dell’Italia è in gran parte dovuta alla produttività multifattoriale, definita come la componente residuale della crescita non connessa a variazioni di output di lavoro e capitale, ma riconducibile all’ecosistema-Paese, cioè ad elementi come l’efficacia del sistema della formazione, l’allocazione efficiente del capitale umano, la funzionalità della P.A.. In Italia, la produttività multifattoriale – che possiamo quindi chiamare anche le “energia del sistema” – ha fornito un contributo negativo alla crescita del PIL (-0,1 punti percentuali di media tra il 2000 e il 2022), in controtendenza rispetto a tutti gli altri Paesi benchmark. Tra le componenti della produttività multifattoriale rientra anche il livello di digitalizzazione diffusa nel Paese. Esiste infatti una forte correlazione positiva tra digitalizzazione e produttività.
A livello settoriale il Tableau de Bord della Transizione Digitale ha stimato che nei prossimi 5 anni, la digitalizzazione, con particolare attenzione sulla adozione del Cloud a livello settoriale, ha il potenziale di generare un livello di produttività multifattoriale superiore del 3,5% per un’impresa media. A livello Paese esistono molti casi concreti di forte sviluppo digitale che ha aumentato in maniera diretta la produttività, come quello della Repubblica Ceca, dove la quota di imprese con Digital Intensity alta o molto alta è cresciuta del +17% tra il 2015 e il 2019 (la 3° variazione più alta in UE), contribuendo a un aumento della produttività del +23% nello stesso periodo. Simili dinamiche si sono registrate di recente, per esempio, anche in Irlanda e Austria.
Digital transition: il PNRR opportunità fondamentale per l’Italia
In questo contesto, il PNRR è un’opportunità fondamentale per l’Italia e per stimolare la digitalizzazione del sistema-Paese. I fondi destinati al digitale, presenti nel PNRR italiano, sono infatti maggiori rispetto a quelli di Francia, Germania e Spagna sommati assieme: secondo una riclassificazione di tutti i PNRR dei principali Paesi operata dall’Osservatorio, l’Italia destina alla digital transition più di 48 miliardi di euro, mentre Spagna, Francia e Germania complessivamente 41,3 miliardi di euro (con quote rispettivamente di 19,6 miliardi, 8,4 miliardi e 13,3 miliardi ).
Dalle stime di The European House – Ambrosetti, gli impatti strutturali abilitati dal PNRR sono estremamente rilevanti e potranno ammontare nel 2027, in ipotesi di piena e puntuale implementazione del piano, al +1,9% del PIL annuo, con un effettivo positivo di stimolo per tutto il decennio successivo fino al 2036, con un impatto cumulato potenziale del +13%.
Il contributo alla crescita della digitalizzazione della PA
In questo quadro, la digitalizzazione della PA e la maggiore produttività delle imprese abilitata dalle tecnologie digitali contribuiranno alla crescita per il +1,2% annuo del PIL, fornendo quindi un sostanziale impulso per il rilancio e la competitività del sistema-Paese. Il PNRR ha altresì un ruolo chiave nel raggiungimento degli obiettivi di digitalizzazione delle imprese e dei servizi pubblici del Digital Compass.
Alla luce delle opportunità connesse al Piano, risulta fondamentale garantire la sua piena implementazione. Il PNRR, infatti, prevede un quadro complesso di riforme e investimenti con oltre 500 condizioni da soddisfare, di cui 220 connesse alla digitalizzazione. Secondo il monitoraggio condotto dall’Osservatorio sulla Trasformazione Digitale dell’Italia, a novembre 2023, risultavano conseguite tutte le condizioni di giugno 2023. Occorre dare continuità a questa azione per non accumulare ritardi in aree sensibili come la PA che nel quadro della Missione 1 ha un ruolo centrale sia per l’entità degli investimenti sia per il numero di condizioni associate allo sblocco dei fondi.
L’importanza dell’Intelligenza Artificiale per l’economia italiana
Nel contesto dell’evoluzione digitale, ulteriori opportunità significative, anche disruptive, emergeranno a breve dal progressivo consolidamento dell’Intelligenza Artificiale (IA) che è il “game changer” del prossimo futuro. La sua velocità di diffusione ne è un segnale concreto, basti pensare che per raggiungere 100 milioni di utenti mensili globali, ChatGPT ha impiegato solo 2 mesi, ovvero 4,5 volte in meno rispetto alla seconda app (TikTok) e 1/80 del tempo rispetto al telefono cellulare. Il mercato dell’Intelligenza Artificiale crescerà al 2030 di x20 volte rispetto al 2021, con una crescita annua stimata del +39%.
L’Italia può trarre rilevanti benefici dall’implementazione diffusa di tale tecnologia: in termini aggregati le opportunità sono quantificabili in 312 miliardi di Euro di Valore Aggiunto annuo aggiuntivo (18,2% di PIL o 1,6 volte il valore del PNRR) creabile a parità di ore lavorate, oppure 5,7 miliardi di ore di lavoro annue liberate (ovvero le ore lavorate ogni anno da 3,2 milioni di persone oppure 9 volte le ore di CIG nel 2022) a parità di Valore Aggiunto che possono essere a loro volta reindirizzate ad attive nuove o a più alto Valore Aggiunto.
I potenziali elementi critici della diffusione dell’IA
A fronte di tali prospettive, nel dispiegamento dell’Intelligenza Artificiale, occorre gestire alcuni temi chiave che possono rappresentare potenziali elementi critici dell’IA come l’explainability dei risultati, cioè l’impossibilità di comprensione dei nessi causali che portano alla creazione di determinati output, o la tendenza sistematica di un sistema di IA di produrre risultati non equi che amplificano differenze sociali, così come l’affidabilità dei risultati in termini di output falsi o imprecisi di modelli, ma anche la gestione dei dati e della privacy (che diventa rilevante quando c’è l’”addestramento” dei modelli di IA su dati per cui non si dispone della proprietà intellettuale) e i rischi indiretti derivanti da uso o abuso su larga scala, come fake news e cybercrime.
Queste questioni sono infatti al centro dell’AI Act dell’Unione europea, su cui è recentemente stato raggiunto l’accordo preliminare tra Consiglio dell’UE, Parlamento europeo e Commissione europea. L’attuale bozza di Regolamento si contraddistingue per un approccio basato sul rischio, ovvero in cui le disposizioni dipendono dal grado di rischio degli usi (zero, limitato, elevato o inaccettabile) e non tanto dalla tecnologia in sé (un’eccezione in questo senso è rappresentata dai modelli fondazionali e dai sistemi di scopo generale, o GPAI).
L’obiettivo di tutelare i diritti è sicuramente centrale, ma è acceso il dibattito su quanto il testo impatterà sulla capacità innovativa delle imprese europee nel panorama internazionale. Quel che è certo, è che la normativa dovrà essere accompagnata da adeguate politiche di investimento, anche in considerazione del fatto che l’Europa, nonostante la propria eccellenza scientifica, registra un forte ritardo negli investimenti per l’IA, contribuendo solo per il 7% agli investimenti annuali globali in queste tecnologie, rispetto all’80% cumulato tra USA e Cina.
Creare una maggiore consapevolezza nelle imprese verso l’IA
Oltre a gestire questi temi, è fondamentale anche creare una maggiore consapevolezza nelle imprese verso l’IA: oltre 1 azienda italiana su 5 (21,8%) non sta utilizzando tecnologie di IA e non prevede di farlo; nella maggior parte dei casi (67%) il motivo risiede nella mancanza della percezione di un chiaro utilizzo di business, più che la mancanza di competenze (28%). Questo è in evidente contrasto con la natura stessa dell’IA che vede applicazioni su tutte le funzioni aziendali: dalla strategia alla R&S, dalla produzione alle risorse umane, dall’amministrazione fino alla logistica, da marketing e vendite fino al post vendita.
Le PMI italiane e l’intelligenza artificiale
Nel nostro Paese una particolare attenzione deve essere dedicata a creare le condizioni affinché le PMI possano sviluppare appieno le opportunità dell’IA, per almeno due motivi. Innanzitutto, perché le PMI sono l’ossatura dell’economia italiana, contribuendo al 61% del Valore Aggiunto nazionale (rispetto al 52% della media UE). In secondo luogo, perché le PMI sono più indietro nel processo di digitalizzazione: solo il 27% ha una digital intensity alta o molto alta (vs 27% in UE), l’8% fa analisi di big data (vs 14%) e il 18% effettua e-commerce (vs 22%), mentre il 93% non utilizza alcuna tecnologia di IA (vs 87%).
La necessità di competenze digitali e sicurezza informatica
Un altro aspetto cruciale riguarda la necessità di creare una “massa critica” in Italia sui fattori abilitanti per implementare al meglio l’IA, partendo dalle competenze digitali di base e dalla digitalizzazione delle imprese: servono infatti almeno 3,7 milioni di lavoratori con competenze digitali di base aggiuntivi e 113 mila PMI da digitalizzare per allinearsi ai target del Digital Compass, fino ad arrivare alle competenze digitali avanzate (il gap con la Germania è di 137 mila studenti in discipline ICT).
La sfida è evidente, in primis in termini di velocità: negli ultimi 8 anni (2013-2021) in Italia il numero di studenti in discipline ICT è aumentato di sole 17mila unità: a questo ritmo (+6% annuo medio), arriveremmo ad avere il numero necessario di competenze specialistiche solo nel 2044.
Infine, va sottolineato come per sfruttare appieno le opportunità dell’IA e più in generale della digitalizzazione a supporto della produttività e della competitività del Paese, sia fondamentale garantire la sicurezza, l’operatività e la resilienza di dati, tecnologie, processi e infrastrutture digitali. Parallelamente alla crescita della digitalizzazione, infatti, sono cresciuti anche gli attacchi informatici: nel periodo 2018-2022 il numero di cyberattack in Italia è cresciuto del +60%, passando da 1.554 a 2.489 in un quinquennio. In un contesto di crescente pervasività della digitalizzazione e di accelerata diffusione dell’IA diventa cruciale sfruttare le soluzioni di cybersecurity per accrescere la capacità non solo di risposta ai rischi (ovvero reattiva), ma anche di identificazione e anticipazione (proattiva) degli stessi.