La trasformazione digitale non si concretizza solo attraverso la realizzazione di infrastrutture quali le reti veloci o il cloud. Servono anche fattori abilitanti immateriali quali possono essere le competenze e la capacità di fare arrivare i finanziamenti ai progetti realmente in grado di fare da traino all’innovazione. Perché questo accada, la PA ha un ruolo fondamentale: quello di facilitare i meccanismi e aumentare l’efficacia delle azioni ma, soprattutto, deve fare ecosistema col settore privato. Vediamo due esempi che ci fanno capire dove può portare una diversa dinamica nel rapporto tra pubblico e privato.
Come funzionano i processi di innovazione
Partiamo da un primo elemento di riflessione, che riguarda i fattori di successo dei progetti di trasformazione digitale del settore pubblico. Notoriamente, tali progetti incontrano molte difficoltà (ristrettezze di budget, approccio per “silos” verticali, carenza di competenze specialistiche, sottostima delle difficoltà di implementazione, mancanza di risorse dedicate al project management e così via) e scontano quindi un tasso di insuccesso molto elevato.
EY ha condotto, a livello globale e insieme all’INSEAD, l’istituto francese ai vertici delle business school mondiali, uno studio su alcuni progetti di trasformazione digitale nelle amministrazioni pubbliche (tra cui l’italiano PagoPA), chiamato “Inside the black-box: journey mapping digital innovation in government”, che ha per l’appunto analizzato cosa succede “dentro” le amministrazioni (la “black-box”), cioè come funzionano i processi di innovazione, quali elementi li fanno funzionare e quali li fanno fallire. Lo studio ha evidenziato alcuni chiari fattori di successo, come mettere in piedi strutture agili e dedicate ai progetti di innovazione più significativi, aprirsi alle esigenze degli stakeholders esterni, mettere veramente il cittadino al centro del processo, avere sempre uno sguardo anche a quello che viene dopo.
In sostanza i progetti di maggior successo sono quelli che si aprono al privato e puntano alla contaminazione tra settore pubblico e privato, ad esempio imparando dai “disruptors”, cioè adottando un approccio flessibile che consente di adattare i progetti pubblici di lunga durata all’evoluzione tecnologica, che è invece sempre più veloce.
La chiave di successo è quindi una diversa dinamica di rapporto tra pubblico e privato. Due esempi, che abbiamo presentato all’EY Capri Digital Summit, possono essere richiamati, uno che nasce prima in ambito pubblico, l’altro che viene per così dire “trainato” dal settore privato.
Il caso Rehab Technologies
Il primo è il caso di Rehab Technologies, il laboratorio creato da un accordo tra INAIL e IIT (l’Istituto Italiano per le Tecnologie di Genova) per sviluppare tecnologie robotiche a supporto della riabilitazione, che a sua volta ha creato Movendo Technology, una start-up finanziata non solo da INAIL e IIT, ma anche da soggetti privati, che utilizza il know-how dell’IIT e le applicazioni cliniche di Rehab Technologies per sviluppare soluzioni biomedicali di avanguardia e portarle sul mercato. Il caso è molto interessante perché dimostra come pubblico e privato possano lavorare insieme, attraverso un allineamento degli obiettivi: il pubblico deve operare sul lungo termine, mentre il privato ha obiettivi di breve termine, e così il punto di incontro diviene il medio termine (3-4 anni), su cui entrambi riescono a far coincidere le rispettive roadmap. E sicuramente i campi dove in Italia possono nascere esperienze di successo come questa sono diversi, dal settore life science ai Big Data, fino all’Intelligenza Artificiale con le sue molteplici applicazioni, dove è auspicabile che si creino collaborazioni e sinergie significative tra PA, ricerca pubblica, ricerca privata e aziende che stanno sul mercato.
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Il caso del “Borgo 4.0” dell’Irpinia
Il secondo caso interessante è quello del cosiddetto “Borgo 4.0” dell’Irpinia, un progetto che punta a portare in un piccolo comune degli appennini campani la punta avanzata della sperimentazione della nuova mobilità, come l’auto a guida autonoma, su cui fino ad ora si stanno candidando solo aree urbane e pianeggianti. L’iniziativa è stata promossa da un’azienda privata (Adler Group), attraverso l’associazione della filiera industriale dell’automotive (ANFIA) e il consorzio di ricerca da essa guidato. Su questa base è stato dapprima coinvolto il settore pubblico (l’Università Federico II di Napoli e la Regione Campania, che co-finanzierà la sperimentazione, oltre che scegliere il Comune dove avrà sede il Borgo 4.0) e poi un intero ecosistema, prevalentemente locale, di PMI e della ricerca. Un caso quindi dove il privato ha svolto un ruolo di traino, trovando nel pubblico un interesse e una risposta pronta per avviare una collaborazione proficua.
Sviluppo di competenze e meccanismi di funding
Da questi due casi si deduce facilmente come l’innovazione si sia creata attraverso la messa a disposizione di “infrastrutture” abilitanti, che non sono solo le infrastrutture digitali (il broadband, il cloud computing…), pur importanti, ma anche altre “infrastrutture”, ugualmente necessarie, come le competenze e il funding.
Il ruolo della PA è quello di intervenire sul miglioramento di queste infrastrutture abilitanti, cioè sullo sviluppo di competenze e sui meccanismi di funding.
Lo sviluppo di competenze di avanguardia attraverso la ricerca pubblica nei settori dove l’Italia è in grado di costruire un posizionamento competitivo è sicuramente fondamentale. Ma anche l’adeguamento delle competenze dei dipendenti pubblici, verso una maggiore capacità di progettazione, di gestione dei progetti innovativi e di monitoraggio dei loro effetti è un elemento altrettanto cruciale.
I meccanismi di funding sono molteplici (fondi a sportello, incentivi fiscali, ecc.) e fino ad ora hanno dato risultati molto disomogenei in termini di efficacia. Va quindi capito quali meccanismi hanno funzionato meglio e come migliorarli ulteriormente, attraverso un’attività costante di assessment e valutazione. I fondi europei sono una parte importante del funding, ma occorre collegarli meglio ai processi di innovazione, oltre che migliorare l’efficacia della spesa, ancora troppo bassa nelle amministrazioni.
In conclusione, per spingere l’innovazione, la PA sarà sempre più chiamata a farsi ecosistema con il mondo delle imprese, migliorando la sua funzione di facilitazione dei meccanismi e di aumento dell’efficacia delle azioni. In questo contesto la differenza la faranno proprio le “infrastrutture” abilitanti immateriali come le competenze e la capacità di far arrivare i finanziamenti a quelle iniziative che portano sviluppo per il Paese.