Di nuovo siamo alle soglie di un nuovo Governo che si presenterà alle Camere carico di aspettative, ma anche di grandi responsabilità. Una delle azioni che sembra essere entrata stabilmente nel programma è una riforma radicale della Pubblica Amministrazione.
Questa circostanza è insieme foriera di speranze, ma anche di preoccupazioni. Partendo dal bicchiere mezzo pieno vediamo che una buona PA è la prima delle missioni del Piano nazionale di ripresa e resilienza (da ora il Piano) e, con molta ragione, viene considerata una condizione necessaria per l’attuazione dell’intero Piano.
Lo stanziamento previsto (circa 6 miliardi al netto dell’operazione cashless che con la PA c’entra di striscio) non è certo enorme, ma si tratta di risorse aggiuntive a quelle ordinarie e a quelle che la programmazione europea 2021-2027, auspicabilmente rinnovando il PON governance e capacità amministrativa, attribuirà a questo obiettivo che è, a detta non solo mia che gli ho dedicato tutta la mia vita di lavoro, una priorità del Paese. Bene quindi, anche se, come vedremo, è necessario che il Piano su questo punto sia più coraggioso e più chiaro.
La tentazione di una nuova, radicale riforma
Ma esiste anche un lato in ombra di questa centralità della riforma della PA ed è dato proprio dalla parola “riforma” che, negli ultimi decenni, non ha portato fortuna né grandi risultati ai numerosi e successivi tentativi appunto di “riformare” la PA. Men che meno ora abbiamo bisogno che un nuovo Governo, per di più dalla durata necessariamente limitata, anche se dovesse durare sino alla fine naturale della legislatura, vari una nuova grande e organica riforma della PA. Non ne abbiamo bisogno per alcune solide ragioni che sono evidenti solo a guardare con onestà intellettuale gli ultimi trent’anni.
- La prima ragione è data dalla evidenza fattuale che riforme anche importanti sono già leggi dello Stato, ma che aspettano ancora di essere attuate e di essere quindi verificate sul campo. E penso a molti dei decreti Madia, ma anche alla parte superstite della riforma Brunetta e, andando più indietro, agli stessi principi ispiratori delle riforme di Sacconi e di Bassanini.
- La seconda ragione discende dalla prima ed è la constatazione che le leggi non possono bastare a cambiare i comportamenti: serve l’accompagnamento, la formazione, la cura, l’attenzione alle persone. Lo dico da troppo tempo per soffermarmici troppo, ma quel che ci mancano non sono le leggi, ma la capacità di attuarle con intelligenza e flessibilità. Certo questo non vuol dire che non servano provvedimenti normativi che aiutino a togliere i sassi grandi o piccoli che a volte bloccano gli ingranaggi.
Quali azioni legislative sono necessarie
Poche e mirate azioni legislative servirebbero. Cito solo tre campi:
- il più urgente è quello del riordino della dirigenza pubblica, grande assente dell’ultimo decennio di riforme;
- ma anche per i concorsi e le assunzioni ci sono da fare aggiustamenti normativi, forse anche solo con normativa secondaria
- infine, il sistema degli appalti e del procurement va rivisto profondamente per rendere le amministrazioni capaci di acquistare al meglio innovazione.
Ma una cosa è lavorare al cantiere della PA usando, dove serve e con grande parsimonia, lo strumento di nuove leggi, altra cosa è cancellare il cantiere esistente e ricominciare da capo, magari con nuove leggi deleghe monstrum, che necessitino di decine di decreti legislativi delegati e questi, a loro volta, di centinaia di provvedimenti attuativi.
Affermiamo quindi che non ci serve quella “riforma radicale della pubblica amministrazione” che ho sentito citare più volte in questi giorni, ma questo non vuol dire che non servano coraggiose azioni per rigenerare le nostre amministrazioni spesso esauste. In questo senso il Piano, specie se in sinergia con le risorse ordinarie e la programmazione europea, è certamente una straordinaria occasione.
Le azioni coraggiose che servono
Il Piano è un’occasione per fare, in estrema sintesi, alcune cose urgenti inserite in un quadro unificante.
Partiamo dal quadro: si tratta di portare la PA nel mondo digitale e non un po’ di digitale nella PA. La trasformazione digitale va intesa infatti come un cambio di paradigma o, se vogliamo citando Beck, come una “metamorfosi” più che come una riforma. E le metamorfosi non si impongono per legge. Già importanti articoli su questa testata, ed in particolare quello dell’amico Alfonso Fuggetta, hanno ampiamente descritto le azioni da fare per la digitalizzazione delle amministrazioni e non le ripeto qui. Modello di interoperabilità, cloud, razionalizzazione e consolidamento degli applicativi e delle basi di dati, governance definita, nuovo quadro del procurement sono solo alcuni dei fronti aperti.
In questo quadro “nativamente”, ma non ingenuamente digitale ecco poi le quattro azioni necessarie che il Piano permette, ma non garantisce, e su cui sarà importante dimostrare tutto il coraggio necessario:
- Assumere presto e bene: se è urgentissimo non lasciare le amministrazioni in questo stato perennemente emergenziale in cui uno sciagurato decennale blocco del turnover le aveva ridotte, non possiamo permetterci scorciatoie. Dobbiamo seguire “presto e bene” una filiera virtuosa sia per l’immissione di nuova dirigenza, sia per rinnovare il comparto. Un processo lineare che parte dalla corretta definizione della missione strategica a cui l’ente è chiamato (specie se nell’ambito del Piano); vede poi analisi dei fabbisogni di personale non condizionata dall’esistente, ma proprio dalle missioni; prosegue con l’individuazione innovativa dei profili necessari (qui una nuova definizione anche contrattuale dei profili è necessaria); si preoccupa della scelta dello strumento concorsuale più adatto e della scelta oculata delle commissioni che avranno in carico lo svolgimento dei concorsi (una commissione intonata, come nelle migliori tradizioni, alla burocrazia difensiva e tesa solo a on avere rogne farà fallire qualsiasi buon concorso); garantisce lo svolgimento corretto, ma agile e veloce dei concorsi, usando anche modalità innovative (ci sono amministrazioni che hanno usato le lettere motivazionali ad esempio, come fanno le aziende private); attua veloci ma accurate immissioni dei neo assunti attraverso processi di mentoring, di job shadowing, di trasmissione dei saperi che valorizzino anche l’esperienza degli “anziani”.
- Decuplicare la formazione dei dipendenti pubblici che ha toccato nel 2018 (ultimo anno di rilevazione certificata) il minimo di 148 milioni con meno di una giornata di formazione a testa e per di più nella maggior parte mirata agli adempimenti legislativi. È necessario tornare a quell’1% del monte salariale da investire in formazione che era stato già indicato nel 2001 dall’allora ministro Franco Frattini e che porterebbe l’investimento a oltre 1.700 milioni.
- Cambiare la pratica della valutazione, utilizzando anche la legislazione vigente, ma privilegiando la valutazione organizzativa rispetto alla valutazione individuale, usata ora solo per distribuire una parte degli emolumenti considerati ormai diritti acquisiti. Abbattendo i silos tra le amministrazioni da considerare in filiere amministrative verticali tese al raggiungimento di obiettivi che, necessariamente devono coinvolgere tutti i livelli della PA. Se vogliamo risanare una periferia marginalizzata e raggiungere obiettivi chiari, condivisi, misurabili, non possiamo che unire le forze e le organizzazioni che, partendo dai fondi europei, arrivino al quartiere passando per lo Stato centrale, la Regione, l’amministrazione comunale, coinvolgendo anche le organizzazioni dei cittadini, il terzo settore, il sistema finanziario, le università, le imprese.
- Ascoltare di più, partendo dalla convinzione che i cittadini e le loro associazioni sono portatori di istanze e di bisogni, ma anche di saperi e di soluzioni. Un’amministrazione al servizio dei cittadini e delle imprese deve essere una PA condivisa e aperta quindi è necessario: fare ricorso sempre, nella progettazione e messa disposizione dei servizi della PA a processi di co-design e di ascolto dei cittadini e delle imprese; sviluppare con coerenza processi partecipativi; garantire sempre la disponibilità e la pubblicità di dati aggiornati, certificati e aperti , da intendersi come “bene pubblico” in modo da rendere possibile il monitoraggio civico delle politiche.
Conclusioni
Rigenerare le amministrazioni pubbliche è forse la principale priorità nazionale per garantire il successo di quel Piano su cui sono puntate ora le nostre speranze di ricostruzione. Proprio per questa riconosciuta e condivisa urgenza e importanza è presente la tentazione di reiterare l’esperienza della riforma epocale, nonostante un esame onesto del passato ci dovrebbe dire chiaramente che non funziona. Ci troviamo di fronte al “teorema del lampione” di Fitoussi che ci fa cercare le chiavi dove c’è luce e non dove le abbiamo perse.
Ma non è nella radicale riforma della PA che troveremo le soluzioni, ma come i saggi che si rifiutano di guardare il dito invece della luna, dobbiamo trovare le ragioni e i modi del cambiamento nelle sfide che abbiamo davanti. E le sfide ci suggeriscono di focalizzare gli sforzi, di rafforzare le fila, di aprire le amministrazioni alla collaborazione e alla partecipazione, a definire indicatori condivisi per grandi e strategici obiettivi in grado di orientare l’impegno di tutti i lavoratori pubblici e di restituire loro dignità e appartenenza.
Questo orientamento a ridefinire l’innovazione della PA sulla base delle grandi missioni che abbiamo davanti, in primis sostenibilità dello sviluppo, transizione digitale e riduzione delle disuguaglianze è anche al centro del prossimo FORUM PA 2021 in programma dal 21 al 25 giugno che si propone di creare e rafforzare le connessioni tra i soggetti che operano nelle amministrazioni centrali e locali, nelle aziende tecnologiche, nei territori attorno alle missioni, agli obiettivi e agli interventi di quello che sarà il PNRR.