Diritto di tutti all’accesso a internet: dovrebbe essere in costituzione, ha detto ieri sera il premier Conte. Principio molto bello – la cui importanza si percepisce soprattutto adesso, che tutto è legato al filo della nostra connessione… ma che fare perché non sia soltanto un principio teorico, uno slogan?
Sì, perché il rischio è proprio questo. Mentre noi vogliamo che l’attuazione di questo diritto sia reale, e ci aiuti contro gli effetti della crisi incombente.
Infrastrutture
Partiamo dallo status. Il diritto a una copertura internet universale è uno dei pochi fronti su cui abbiamo fatto importanti passi avanti negli ultimi anni. La copertura 30 Megabit è in linea con la media europea: la velocità che permette di vedere film in streaming, fare uno smart working decente, fare lezioni online. Siamo in dietro sulla copertura a 100 Megabit e oltre, velocità che serve per esempio per trasmettere immagini radiologiche ad alta risoluzione. O per fare smart working in videoconferenze mentre uno o più figli fanno video lezioni online. Quindi bene, avanti così. Ma non è qui la sfida per il vero “diritto di internet in costituzione”.
Pa digitale
Anche su PA digitale qualche passo avanti è stato fatto, come si vede nell’ultima versione del Desi. Vero è che i dati dell’osservatorio Agenda Digitale dicono che la digitalizzazione PA è macchia di leopardo, con grosse differenze tra Nord e Sud, tra centro e periferia. La crisi del coronavirus è stato uno shock per accelerare processi che ci avrebbero messo anni.
Le PA ora ci dicono: per anni abbiamo tentato di fare smart working, ora ci siamo riusciti in poche settimane. Ma questo fenomeno va accompagnato con strumenti di formazione dei dipendenti pubblici. Prendiamola come occasione anche per ripensare i processi con cui la PA eroga i servizi.
Per esempio: per sposarmi ancora quattro anni fa ho dovuto andare da un comune all’altro per portare il certificato secondo cui non ero ancora sposato. Se i comuni si parlassero via mail sarebbe un passo avanti…ma l’ideale sarebbe l’Anpr, l’Anagrafe Unica. Questo significherebbe ripensare il processo: si arriverebbe al punto da fare sparire il servizio invece di limitarsi a digitalizzarlo. Non ci sarebbe bisogno di tanta burocrazia se i database pubblici parlassero. Nemmeno per le aziende ora costrette a dire alla PA cose che quella già sa, per l’anti-corruzione, ad esempio (è il caso del certificato carichi pendenti).
Per un uso pieno e consapevole di internet
Comincia a emergere da questi ragionamenti insomma che diritto a internet in costituzione può e deve anche significare promuoverne un uso pieno e consapevole. Da parte di PA, cittadini, aziende. Con una nuova mentalità.
Per le aziende significa per esempio insegnare loro a fare e-commerce, ora quanto mai necessario per salvare le pmi dalle crisi. E per le persone significa incentivo all’acquisto di strumenti magari solo per fini scolastici – a maggior ragione perché il blocco rischia di essere lungo. L’Istat dice che ben il 14 per cento delle famiglie con un minore non ha il computer a casa. Se i figli sono due ed entrambi devono studiare, serve un computer e un tablet (almeno).
E non basterebbe nemmeno questo. Come per la PA, bisogna ripensare i processi dell’insegnamento, moduli didattici. Con le lezioni a distanza cambia tutto, come stiamo vedendo adesso con l’esperienza di didattica online del Politecnico di di Milano. Serve un grande programma di formazione ad hoc per corpo docente.
Così, di fianco al diritto all’accesso a internet in costituzione, certo sacrosanto, serve una forte riqualificazione delle competenze pubbliche e private.
Altrimenti questo diritto le persone non sapranno come esercitarlo. E sarà l’ennesima norma fine a sé stessa, esempio di quella “innovazione per decreto” – ora addirittura “per riforma costituzionale” – che ha di rado portato veri cambiamenti.
Cos’è il digital divide, nuova discriminazione sociale (e culturale)