Il ritardo sul digitale ha paralizzato la crescita economica: finalmente a dirlo, nei giorni scorsi, è stato anche il Governatore della Banca D’Italia, Ignazio Visco, durante le sue “considerazioni finali” nella presentazione della relazione annuale dell’Istituto sul 2018.
L’Italia arranca nell’ambito dei servizi digitali e dell’intelligenza artificiale e non riesce come dovrebbe (e potrebbe) a valorizzare, grazie anche alle nuove tecnologie, il suo immenso patrimonio culturale e di creatività. Solo il digitale ci permetterebbe di creare quella “sovrapposizione virtuosa” che permetterebbe al Paese di sfruttare le proprie eccellenze come volano di sviluppo.
Le ragioni del flop sono molteplici e una di queste va ricercata nell’attuale regionalismo, basato su un modello di sviluppo di tipo “compensativo” che non ha fatto altro che acuire le differenze tra i territori e creare, come vedremo di seguito, delle trappole di sottosviluppo da cui è impervio uscire.
Alla luce delle nuove frontiere di applicazione dell’intelligenza artificiale, non solo nel settore manifatturiero ma che nella pubblica amministrazione, e dell’andamento lento dell’Italia rispetto ad altre potenze molto attive in questo campo, i rischi per le Regioni già ai margini sono molti ed è per questo che è necessario fin da subito cambiare schema, smettendo di inseguire la chimera dell’industrializzazione e fissando piuttosto nuovi target.
La crisi delle attuali politiche di sviluppo regionale
Il problema di fondo, da cui voglio partire per delineare la mia analisi, risiede nel fatto che i tradizionali modelli di governance multilevel che, con alterne fortune, hanno costituito il mainstream degli ultimi anni e sui l’Unione europea ha incentrato gran parte delle sue azioni e organizzato i suoi interventi a scala nazionale e regionale sono stati messi in crisi dai cambiamenti economici, politici e sociali degli ultimi anni, Cambiamenti che, quindi, hanno avuto l’ulteriore effetto di complicare ulteriormente il difficile rapporto fra politiche europee/nazionali e politiche regionali e/o locali.
La valutazione degli effetti, non sempre lusinghieri delle politiche regionali, e il dato ormai incontrovertibile che un gruppo considerevole di regioni presenta indicatori di sviluppo negativi a fronte di cospicui investimenti (vedi valutazione dei PO 2007-2013) mette chiaramente in luce la necessità di aggiornare/cambiare lo schema di governance che è posto a base delle politiche regionali e soprattutto il meccanismo di coordinamento con le politiche nazionali ed europee.
In primo luogo i sistemi locali diventano sempre più complessi e il loro rapporto con il sistema nazionale e internazionale diventa sempre più sistemico e meno gerarchico. Scendendo di scala sono i processi dal basso a governare sempre di più le dinamiche locali con un protagonismo sempre maggiore di gruppi sociali interconnessi e in grado di fare rete. Ma piuttosto quello che potremmo chiamare comunitario.
Politiche locali, frammentazione e “dutch disease”
Chi governa le politiche locali deve soprattutto essere un facilitatore che fa emergere le esigenze della comunità e le struttura sotto forma di progetto politico economico. Ogni comunità locale intesa come aggregato di interessi, bisogni e di capitale sociale si pone in competizione/collaborazione con le altre comunità locali e le politiche nazionali altro non sono che lo sforzo di ricomposizione in termini di efficienza, efficacia ed equità di queste istanze locali.
La frammentazione dei poteri di governo porta al disordine. Nel senso che genera per sé frammentazione. Nessuno ha incentivi sufficienti a coordinarsi. Questo significa che uno strumento (la politica regionale) messa in atto per promuovere lo sviluppo crea invece delle trappole. Le regioni deboli non sono attrezzate per generare crescita endogena. Inondarle di capitale crea una sorta di Dutch Disease.
Il risultato è che questo tipo di regionalismo acuisce le differenze tra le regioni (crea equilibri multipli e resilienti) e non promuove la convergenza. Le regioni periferiche sono le più esposte alla perdita di competitività visto che il sistema funziona secondo regole economiche che favoriscono l’aggregazione dei fattori (che la politica regionale “classica” non riesce a contrastare nonostante le laute compensazioni monetarie).
Questo tipo di politica di sviluppo regionale “compensativa” o “aggiuntiva” finisce per accentuare le differenze tra le regioni, che sono dovute alle diverse funzioni di risposta e si manifestano in equilibri multipli e resilienti. Invece di favorire la convergenza, le politiche tradizionali creano trappole di sottosviluppo da cui i sistemi territoriali non possono sfuggire.
Pubblica amministrazione 4.0
Questo scenario si presenta ancora più complesso se si considera che l’innovazione tecnologica e l’ICT sono diventati degli obiettivi caratterizzanti delle politiche. Oggi si parla con sempre maggiore enfasi di politiche 4.0.
L’intelligenza artificiale è la nuova frontiera che può costituire una nuova rivoluzione non solo nell’industria, ma anche nella pubblica amministrazione. Si parla oggi diffusamente di Industria 4.0 e si comincia, si pur timidamente, a parlare di PA 4.0.
La nuova rivoluzione dell’intelligenza artificiale cambierà radicalmente nel prossimo ventennio il sistema produttivo, le relazioni industriali e anche la nostra vita quotidiana.
Come governare il cambiamento
Questa rivoluzione può essere un’opportunità per colmare il gap tecnologico e di sviluppo. Ma può essere anche un rischio, se non si sarà in grado di governare questi cambiamenti.
In un mondo in cui la velocità è tutto, in cui la rapidità è un fattore critico di successo, le regioni deboli si presentano con un processo di decisione/attuazione, lento, farraginoso ed elefantiaco. Dei pachidermi che devono competere in una gara di velocità con lepri e gazzelle.
Velocizzare i processi e le decisioni è, tuttavia, solo un problema organizzativo. Non servono nuove risorse o nuovi investimenti.
I cinesi stanno investendo fortemente nell’Intelligenza Artificiale perché hanno individuato in questa un’opportunità per colmare il divario con l’occidente.
Creatività e innovazione la chiave per uscire dall’angolo
L’Italia sta arrancando parecchio in questo processo. La nostra spesa in Ricerca & Sviluppo in proporzione al Pil è fra le più basse d’Europa. Il livello dei servizi digitali della PA è ad un livello sub-ottimale. Stiamo diventando la cenerentola d’Europa nelle ICT, nell’intelligenza artificiale e nei servizi digitali. Gran parte delle politiche sono politiche tradizionali che troppo spesso fanno ricorso al vecchio e obsoleto concetto di industrializzazione.
L’Italia non deve più inseguire l’industrializzazione, ma deve fare un salto nella nuova era e investire in creatività e innovazione. È inutile inseguire il treno dell’industrializzazione, dobbiamo piuttosto pensare all’Italia 4.0, un’Italia di imprese hi-tech e che forniscono servizi avanzati, un’Italia che valorizza in maniera innovativa anche i tradizionali settori dell’Agroalimentare e del Turismo.
Italia 4.0 significa investire nella logistica, e con la creazione di poli di eccellenza in grado di trasformare l’Italia in una grande piattaforma logistica fra l’Europa, l’Asia e l’Africa.
Italia 4.0 significa creare distretti di imprese hi-tech che sviluppino servizi di ICT innovativi per le famiglie e le imprese, utilizzando il know how delle nostre università.
Italia 4.0 significa trasformare l’Italia in un territorio creativo che a partire dal patrimonio di beni culturali valorizzi i settori tradizionali del turismo, dell’agroalimentare e dell’artigianato di qualità innestando una “Sovrapposizione virtuosa” tra beni culturali e sistema produttivo che è ciò che consente ciò ai beni culturali di giocare il ruolo di volano di sviluppo.
Sono questi obiettivi sfidanti, ma per vincere le sfide occorre attrezzarsi e lavorare duramente. Il cammino è in salita, il tempo è una risorsa scarsa ed è per questo che bisogna con convinzione e senza indugio trovare le risorse adeguate per fare gli investimenti necessari nei settori innovati ed emergenti.