Tra qualche giorno inizierà il terzo decennio di questo secolo: sostenibilità e innovazione digitale sono le sfide dei tempi che si aprono. Due mega trend che caratterizzeranno l’evoluzione dell’economia globale e che, come due stelle comete che si muovono velocemente, tenderanno sempre più a convergere.
La collisione fra due stelle, come ci insegna la fisica dello spazio, può generare nuove stelle o può creare buchi neri, perciò il futuro dell’economia italiana si giocherà sulla capacità di saper coniugare questi due elementi, così da generare l’innovability (innovation + sustainability), sulle cui basi far brillare l’economia “digital-circolare”.
“L’innovazione è una misura strutturale di cambiamento economico pertanto ci vuole consapevolezza e bisogna anche rischiare e avere coraggio”, Paola Pisano, Ministro dell’Innovazione.
La consapevolezza del contesto in cui certe sfide emergono sicuramente aiuta tutti a essere all’altezza di poterle affrontare, ma è d’obbligo, guardando al futuro, porsi alcune domande per definire le migliori traiettorie. Che significa, oggi, essere cittadini di una società divenuta sempre più complessa per via della diffusione di tecnologie e servizi digitali? Come cambia il lavoro, l’apprendimento, il sapere, il tempo libero, e in che modo imprese, lavoratori e parti sociali intendono affrontare in modo costruttivo le nuove politiche industriali e il welfare di domani? Qual è la qualità degli attuali servizi pubblici nelle diverse realtà territoriali e il livello di penetrazione di questi servizi, digitali e non? Quali potrebbero essere le ricadute sul tessuto economico di servizi digitali efficaci ed efficienti? Come i dati possono realmente sostenere il passaggio da un’economia lineare (basata sull’estrazione di materie prime, sulla produzione, sul consumo di massa e sullo smaltimento di scarti) a un’economia circolare (caratterizzata dalla condivisione delle risorse, dal riciclo e dall’impiego di fonti energetiche rinnovabili) e innescare un modo di produrre e consumare più responsabile?
È indispensabile, perciò, avere strumenti di supporto alla comprensione di certi fenomeni, per cogliere opportunità (da valorizzare) e rischi (da mitigare) con soluzioni tecniche, politiche pubbliche, iniziative private e del terzo settore.
La recente presentazione del rapporto Digital Italy 2019[1], giunto alla sua quarta edizione, è stata l’occasione per molti stakeholder dell’innovazione italiana di svolgere un’analisi sullo stato di salute della digitalizzazione nel nostro Paese, facendo il punto su quanta strada è stata fatta e quanta ancora ne resta da fare, con una ricca raccolta di contributi e proposte. Altri spunti interessanti vengono dall’altrettanto recente iCity Rank di Fpa, come vedremo più avanti.
E a proposito di risorse, l’osservatorio Agenda Digitale del Polimi nel rapporto in uscita oggi stima che risultano non impiegati ancora 1,14 miliardi di euro di fondi pon e por europei 2014-2020. Ancora una volta, la conferma che a mancare è una strategia Paese coordinata.
Il ruolo dell’Italia nel contesto europeo (smart e sostenibile)
Alla luce di questi punti, l’idea lanciata dal Ministro Pisano di investire su un’infrastruttura cloud italiana è sicuramente coraggiosa, ma sarebbe una soluzione rischiosa, che ci farebbe imboccare una direzione sbagliata, se fosse limitata solo al nostro Paese e non prevedesse di federarsi con il cloud europeo proposto dalla Germania con Gaia-X[2]. Purtroppo l’Italia non rientra nel gruppo di testa dei Paesi più innovatori, perciò è a livello europeo che dobbiamo muoverci se vogliamo trovare il modo per uscire dalla stagnazione. Sfruttando, per esempio, gli investimenti che la Banca Europea per gli Investimenti (BEI) sta promuovendo nella modernizzazione e sviluppo dei sistemi produttivi e logistici[3], oppure cogliendo le opportunità offerte dall’European Investiment Fund[4] , che mirano a supportare l’imprenditorialità e l’innovazione a livello regionale.
Come sistema Paese, viste le deleghe ottenute da Paolo Gentiloni nella Commissione europea, si potrebbe anche proporre di ripensare le regole della concorrenza e la disciplina dei divieti agli aiuti di Stato. Non si capisce, infatti, perché in altri Paesi, Stati Uniti e Cina in testa, sono consentiti ingenti aiuti economici per finanziare direttamente le imprese e la ricerca sulle applicazioni del 5G, mentre nel vecchio continente questi sostegni non si possano attuare. Gentiloni può essere una figura importante per spingere l’UE a uscire dall’idea della politica dell’offerta e ribadire il bisogno di quella della domanda, che si tradurrebbe in un bilancio pubblico europeo che può spendere in deficit finanziato con eurobond. Ne trarrebbero beneficio anche le aziende italiane. L’emissione di titoli sul debito europeo sovrano, peraltro, potrebbe servire a finanziare un grande piano di investimenti su ricerca, innovazione e trasferimento tecnologico, per far sì che l’Europa sia pronta per l’era digitale e torni al centro della crescita globale. Una crescita che si baserà, nelle intenzioni della nuova Commissione europea, sul Green Deal europeo che dovrebbe contare su un mega finanziamento di mille miliardi di euro, con l’obiettivo di promuovere una nuova politica ambientale e allo stesso tempo di rilanciare l’economia green oriented, attraendo sempre più investitori da tutto il mondo. Ecco allora che la sfida del digitale è una grande occasione per mettersi in discussione e avere una vision progettuale organica, di lungo periodo, che comprenda anche l’altra gamba della strategia di crescita, quella della sostenibilità.
Emergono elementi interessanti sui valori e le tendenze di quelli che saranno i principali consumatori di domani. Benessere e sostenibilità sono le nuove priorità, specialmente per i giovanissimi: il 28% dei Millennials e il 41% dei Gen Z considerano la salute della persona e del pianeta determinanti nelle scelte d’acquisto, tanto che oltre il 90% dei giovani italiani è disposto a pagare da un 5 a un 10% in più per un prodotto green di un’azienda che adotti comportamenti sostenibili, sia dal punto di vista sociale che della catena di fornitura e produzione[5]. Con l’avvento della digit-circolarità deve cambiare anche l’approccio del policy maker, che dovrà favorire politiche di sostegno (credito di imposta) alle imprese che digitalizzano e che fanno il salto verso l’economia circolare.
Se il digitale rimane una questione puramente tecnologica, non ci saranno mai grossi investimenti finanziari perché, oggi, la grande finanza innovativa spinge per avere imprese socialmente ed eticamente responsabili. Si potrebbe pensare anche di legare la leva fiscale alla gestione delle risorse umane. L’acquisto di computer è spesso legato a un beneficio fiscale, ma altrettanto non succede se si decide di investire in formazione del capitale umano. Utilizzare la leva fiscale (incentivi/disincentivi), istituendo un’apposita Commissione di studio per ridisegnare un sistema fiscale adeguato alle sfide del nuovo millennio, sarebbe una proposta da incoraggiare e favorire.
Quanto vale il mercato dell’ICT pubblico?
Spesso la lentezza della digitalizzazione del nostro Paese viene giustificata con la carenza di fondi. In realtà, appare difficilmente invocabile la scarsezza di risorse pubbliche tout court per giustificare il mancato raggiungimento dei risultati attesi. Le stime più accreditate certificano una spesa complessiva di circa 5,7-5,8 miliardi l’anno per l’informatica pubblica, tra risorse nazionali e comunitarie. Di cui però solo una piccola parte (mai stimata) va in innovazione; il grosso è in abbonamenti tlc e manutenzione dell’installato.
Le cifre sono contenute nel Referto in materia di informatica pubblica[6] redatto dalla Corte dei Conti, in cui si parla di uno scenario con evidenti disponibilità, “che rappresentano un considerevole potenziale di sviluppo e che potrebbero fare la differenza nell’adeguamento dell’I.C.T. italiana a tutti i livelli di gestione e di governo, ma che vengono utilizzate in misura limitata e non sempre nel modo più razionale”. Ecco la nota dolente, la frammentazione. Non è una questione di quanto si spende per la digitalizzazione della PA, ma come si spendono questi soldi[7]. Il problema, quindi, non sta nella quantità di risorse a disposizione – come confermato anche dal succitato rapporto del Polimi – , piuttosto trova radici nella frammentazione.
Tale frazionamento finisce inevitabilmente per rallentare l’implementazione dell’Agenda Digitale; molte delle iniziative a livello locale e centrale offrono soluzioni a micro problemi senza risolvere quelli di sistema. Questa tendenza riduce l’impatto dei singoli e genera inevitabilmente uno spreco di risorse. Ben vengano, quindi, le iniziative che tendono a mettere in comune le risorse per il digitale. Meglio puntare su pochi progetti, che possono generare benefici per tutti, semplificando a valle l’attività delle amministrazioni locali, chiamate a concentrarsi sulle proprie specificità e sull’effettiva erogazione dei servizi all’utenza. Le piattaforme abilitanti, per esempio, vanno nella direzione giusta, così come la strategia sui data center pubblici (oggi sono oltre 11mila) che puntava a razionalizzare l’esistente.
Ma che fine hanno fatto i Poli Strategici Nazionali? Dovevano essere solo tre nelle intenzioni del Governo, ma non sono stati ancora definiti. E come mai, a distanza di due anni, solo due Competence Center[8] su otto (entrambi al nord) sono attivi e hanno avviato i primi bandi? Averli incardinati nelle università, probabilmente, non si è rilevata la scelta più giusta, così come non aver messo in sinergia i Digital Innovation Hub nati sui territori. È pur vero che l’apertura del recente bando MISE su agenda digitale e industria sostenibile (decreto direttoriale del 2 ottobre 2019[9]), con un valore di incentivi per il 2019 di 329 milioni di euro, e la recente nomina dei vertici del nuovo Fondo Innovazione, prossimo ad essere operativo, serviranno, con l’immissione di risorse fresche, a rinvigorire il mercato.
Che il mercato del digitale italiano (informatica, telecomunicazioni, contenuti digitali ed elettronica di consumo) sia previsto in crescita, anche se le sue potenzialità non sono del tutto valorizzate, trova conferma nell’edizione 2019 del rapporto “Il Digitale in Italia”[10], presentato da Anitec-Assinform. Le proiezioni nel triennio 2019-2021 mostrano un tasso di crescita medio annuo del 2,8%, risultante da incrementi del 2,5% (72.223 milioni di euro) nel 2019, del 2,8% (74.254 milioni) nel 2020 e del 3,1% (76.536 milioni) nel 2021. Da qui al 2021, cresceranno a tassi medi annui del 14,2% l’IoT, del 13,9% la Cybersecurity, del 22% il Cloud, del 14,7% l’ambito Big Data, dell’11,6% le Piattaforme per la gestione Web, del 9,1% il Mobile business, dell’11,8% i prodotti e le applicazioni Wearable. In fortissima crescita anche lntelligenza Artificiale e Blockchain, pur con valori di partenza contenuti.
La crescita dei principali digital enabler, 2019-2021 (previsioni)
Le stime sono frutto della continuità degli investimenti in reti di comunicazione ad alta capacità, della forte spinta attesa dal 5G (per il quale servirebbero più antenne[11] e più ingegneri), dei programmi Impresa 4.0 e dei programmi di ammodernamento della PA (nuovo Piano Triennale). Insomma, i numeri del mercato danno conto di una trasformazione digitale già avviata, ma con un profilo Paese ancora con troppe entità, soprattutto di minori dimensioni e in molti settori, ancora ai margini di un ammodernamento necessario per continuare a creare valore e occupazione.
Collaborare e fare rete
Il tema delle risorse, sia quelle economiche sia quelle umane, è il tasto su cui batte anche Luca Attias[12], che ha posto una domanda cruciale: cosa si può fare con le risorse a disposizione, e a quali progetti dare priorità per non perdere quanto fatto finora sul fronte della digitalizzazione? Come proposta Attias ha suggerito di sanificare la spesa per la gestione dei servizi e liberare risorse. Sanificare la spesa richiede una visione della PA come “sistema”, evitando il rischio di frammentazione degli investimenti. Un rischio che non possiamo più permetterci, soprattutto perché sappiamo che, nonostante gli sforzi profusi, il DESI dà contezza di un’Italia ferma, che si colloca al terzultimo posto in Europa per attuazione dell’Agenda digitale[13].
La digitalizzazione della PA è senz’altro un elemento importante, ma non può prescindere da una visione sistemica dei processi di trasformazione digitale del Paese estesa alle imprese, ai telco provider, al terzo settore, alle infrastrutture, alle competenze e alle politiche industriali. In un Paese come il nostro, caratterizzato da un elevato invecchiamento delle popolazione, dal nanismo delle imprese (manca un vero campione globale), da un eccessivo debito pubblico, l’unica via per intercettare risorse fresche è quella di puntare sulla convergenza tra sistema pubblico e settore privato. Da qui il ruolo chiave del Ministero dell’Innovazione, che sta mostrando già di sapersi rapportare agilmente con gli altri ministeri competenti, chiamato ora a portare presto a soluzione il dualismo con l’Agenzia per l’Italia Digitale (Agid), un dualismo frutto di retaggi passati e fonte di difficoltà oggettive che limitano l’efficienza potenziale e rischiano di affossare anche le più ardite strategie di innovazione.
Il 1 gennaio 2020 entrerà a pieno regime la nuova governance voluta dal Governo, sotto la regia di Luca Attias, il quale ha parlato anche della necessità di fare rete. In questa chiamata alle armi per le imprese (società software e servizi IT), che dovranno collaborare e sostenere la domanda pubblica di innovazione, giocano un ruolo chiave le pubbliche amministrazioni locali. Basti pensare all’impulso al mercato dei pagamenti elettronici a cui sta contribuendo la progressiva diffusione di PagoPA, o alle opportunità di mercato che possono moltiplicarsi a livello locale con lo spostamento in cloud di alcuni servizi della pubblica amministrazione, finora gestiti (in modo poco efficiente) dagli enti.
Senza farsi scoraggiare dalla complessità e vastità delle cose che si possono e si devono fare per sostenere lo sforzo di innovazione del nostro Paese, i risultati arriveranno mettendo a frutto una delle nostre abilità migliori, la creatività. Così facendo, riusciremmo a coniugare digitalizzazione (capacità di sfruttare al meglio le potenzialità della tecnologia) e innovazione (capacità di creare nuovi servizi). Nel passaggio dalla digitalizzazione all’innovazione occorre visione e disegno creativo. È chiaro che ragioni economiche, culturali e sociali, rendono inimmaginabile che i Governi italiani oggi si possano imbarcare in un piano organico, strutturato e compiuto, che sostanzi e governi questo passaggio. Ma forse lo possono fare in parte i governi regionali e gli enti locali. Lo possono fare le imprese e le associazioni intermedie e l’elenco potrebbe continuare. Un gran numero di iniziative innovative, significative e perfettamente coerenti con questa strategia, sono già in corso nel nostro Paese.
I territori pronti per l’innovazione
Una testimonianza tangibile della vivacità dei territori arriva da “ICity Rank[14]”, la classifica della città italiane, elaborata ogni anno da FPA, che ne misura la capacità di adattamento (intelligenza) nel percorso verso città più dinamiche, più funzionali, più ecologiche, più vivibili, più gestibili, più innovative e più capaci di promuovere uno sviluppo sostenibile, reagendo ai cambiamenti in atto attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie. Una speciale classifica scaturisce analizzando l’indice della trasformazione digitale, costruito con l’obiettivo di misurare la capacità delle amministrazioni comunali di sfruttare appieno le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie e dai grandi progetti nazionali.
“Le tre città più smart sono anche le prime tre nella graduatoria dedicata alla trasformazione digitale, a dimostrazione di come le nuove tecnologie possano dare una spinta importante all’evoluzione intelligente delle città”, Andrea Rangone, CEO di Digital360[15]
La caratteristica saliente, osservata nei sistemi locali più innovativi, è quella di aver generato un modello produttivo originale, fondato su un “capitalismo di filiera”, che si è intrecciato con la capacità delle amministrazioni locali di sviluppare politiche di sviluppo corrispondenti alle vocazioni e alle identità locali, di dar vita a esperienze importanti di semplificazione e modernizzazione dei servizi e di sviluppare una collaborazione virtuosa con le università, col sistema della formazione e del trasferimento tecnologico.
Lo studio arriva alla conclusione che, dopo trenta anni, gli impatti della prima rivoluzione digitale (utilizzo dei PC come strumento di elaborazione e scambio delle informazioni) sono ormai largamente diffusi. Tuttavia il completamento della prima fase della rivoluzione digitale, che porti la connessione online ad essere lo strumento “ordinario” di interazione con la pubblica amministrazione (almeno per i 2/3 di popolazione digitalizzata e connessa), non si è ancora compiuto in modo omogeneo nei diversi territori. Se nei primi anni 2000 si parlava di “informatizzazione dei processi” e della “telematizzazione dei servizi”, all’alba del 2020 i principali impegni per i Comuni sono rappresentati dall’integrazione dei servizi comunali nelle grandi piattaforme nazionali (SPID, PagoPA e ANPR), dal rilascio, dalla condivisione e dall’apertura dei dati pubblici e dall’attivazione di strumenti di comunicazione con i cittadini sempre più efficaci e pervasivi[16].
Se dunque nel nostro Paese molto spesso l’innovazione nasce dai territori, è da lì che dobbiamo partire ed è lì che dobbiamo andare a cercarla, anche perché le città sono i luoghi dove si produce la maggiore quantità di materia prima che tutte queste tecnologie utilizzano: i dati digitalizzati estraibili dalla rilevazione dei comportamenti concreti delle persone.
L’innovazione, per sua natura rivoluzionaria e veloce, rompendo gli schemi esistenti e sfuggendo spesso ai confini della regolazione vigente, chiama in causa decisori politici e regolatori al difficile compito di gestire ma non frenare il cambiamento. Si cominci allora a pensare alla definizione di un Piano Strategico di medio-lungo periodo dedicato alla seconda rivoluzione digitale, centrato sullo sviluppo delle sue applicazioni ai centri urbani intermedi, a quelle città, a quei luoghi dove è possibile misurare l’effettiva ricaduta positiva sui cittadini e sulle imprese in termini di miglioramento quali-quantitativo dei servizi, di semplificazione degli adempimenti nonché di riduzione degli oneri economici e/o amministrativi a carico degli utenti. È questa la vera sfida del nuovo decennio che sta arrivando: condividere risorse, sperimentare soluzioni di shared services tra istituzioni diverse, inserire obiettivi di digitalizzazione nei Piani Performance delle PA, coinvolgere i diversi attori locali nella creazione di valore pubblico.
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- “Digital Italy 2019 – per il governo dell’innovazione digitale nel paese” (2019) Enrico Acquati, Carmen Camarca. Maggioli Editore. ↑
- https://www.agendadigitale.eu/infrastrutture/gaia-x-perche-e-importante-il-primo-cloud-su-scala-europea-litalia-ne-fara-parte/ ↑
- Alcuni esempi di progetti finanziati nel 2019 dalla BEI in Italia riguardano, nell’ambito del settore dei trasporti, gli investimenti nell’hub portuale di Ravenna (circa 95 milioni di euro) e nell’aeroporto Milano – Linate (circa 130 milioni di euro), nel settore dell’energia, gli investimenti nel miglioramento della rete del gas di SNAM (circa 240 milioni di euro) e, per quanto riguarda le linee di credito, un prestito alle Poste italiane (400 milioni di euro) per accelerare sul piano strategico Deliver 2022 e un programma di prestiti alle piccole e medie imprese in tutti i settori produttivi, con una quota riservata alle aziende controllate o gestite da donne e un’altra alle imprese innovative (circa 200 milioni di euro). ↑
- Il nuovo fondo europeo verrà lanciato ufficialmente nel 2021 ma le attività inizieranno già dalla prossima estate con una fase pilota basata su una prima tranche di 600 milioni di euro in grant ed equity per testare la recettività del mercato. ↑
- Fonte: PwC Millennials vs Generation Z 2019 ↑
- https://d110erj175o600.cloudfront.net/wp-content/uploads/2019/11/Referto.pdf ↑
- https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/pa-digitale-soldi-spesi-male-e-ritardi-dei-comuni-ma-ce-speranza-ecco-perche/ ↑
- Smact – il Competence Center del Nordest e Start 4.0 – il competence center di Genova. ↑
- https://www.mise.gov.it/index.php/it/incentivi/impresa/bando-grandi-progetti-r-s-fri ↑
- https://d110erj175o600.cloudfront.net/wp-content/uploads/2019/11/Anitec-Assinform_131119_def.pdf ↑
- Per vincere la paura dell’elettrosmog e trovare i siti dove collocare le nuove antenne (da individuare coordinandosi con i Comuni) servirebbe un’azione formativa più forte e la nascita di un Tavolo attorno cui far sedere gli operatori per una concreta concertazione. ↑
- https://www.corrierecomunicazioni.it/pa-digitale/agenda-digitale-attias-ora-ce-governance-ma-resta-il-nodo-risorse/ ↑
- L’Italia si colloca al 25° posto, su 28 Paesi europei, nel 2018 e al 24° nel 2019, in una situazione di svantaggio e all’interno del gruppo di Paesi dai risultati inferiori alla media (Romania, Grecia, Bulgaria, Italia, Polonia, Ungheria, Croazia, Cipro e Slovacchia), con una velocità di crescita delle iniziative inferiore a quella della media europea sui temi del digitale. ↑
- https://www.forumpa.it/citta-territori/icity-rank-2019-milano-firenze-e-bologna-sono-le-citta-piu-smart-ditalia/?utm_campaign=fpa_nl_28112019&utm_source=fpa_nl_28112019&utm_medium=email&sfdcid= ↑
- https://www.digital4.biz/executive/digital-transformation/fpa-icity-rank-2019/ ↑
- https://www.agendadigitale.eu/cittadinanza-digitale/lapp-io-pronta-al-lancio-cosi-i-servizi-pubblici-saranno-a-portata-di-smartphone/ ↑