Per primo è arrivato il cosiddetto Decreto Rientro, che ha fissato al 15 ottobre (in contemporanea con l’introduzione dell’obbligo del green pass) il ritorno in ufficio come modalità prevalente di lavoro per i dipendenti pubblici.
A seguire, venerdì 21 ottobre, il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta ha illustrato ai sindacati le linee guida per il lavoro agile dei quasi 3 milioni e 200 mila lavoratori sparsi nelle 32 mila pubbliche amministrazioni italiane.
Il messaggio è chiaro: il ritorno in presenza è la strada maestra.
Smart working nella PA? Ecco perché può diventare norma, non eccezione
Se esiste una strada maestra, tuttavia, è ormai chiaro che l’esperienza dei mesi scorsi ne ha tracciata anche una laterale, chissà fino a che punto secondaria: lo smart working, difatti, ha fatto breccia nel nostro sistema, e difficilmente ci allontaneremo troppo da quelle modalità di impiego che la pandemia ci ha imposto di adottare, anche quando riusciremo finalmente a lasciarci l’emergenza sanitaria alle spalle.
Probabilmente è (non solo ma) anche questo il significato attribuibile a quella transizione al digitale che in molti considerano necessaria per migliorare l’efficienza della nostra pachidermica pubblica amministrazione.
Gli aspetti critici della transizione da affrontare subito
In questa fase di cambiamento, estremamente fragile, esistono alcuni aspetti critici che non ci si può permettere di trascurare o sottovalutare, poiché è concreto il rischio di alimentare nuovi germi di inefficienza che, sommati a quelli atavici e già noti, produrrebbero effetti contrari rispetto ai benefici che si ambirebbe conseguire.
Si tratta di profili che le linee guida cui poc’anzi si è fatto cenno sembrano avere correttamente individuato.
La capacità di adattamento dei dipendenti pubblici
Un primo profilo di attenzione merita la capacità di adattamento dei nostri dipendenti alle nuove modalità di lavoro, capacità di cui è senz’altro lecito dubitare.
A molti di essi – si consideri che l’età media dei nostri dipendenti pubblici è di 50,7 anni – è stato chiesto di adattarsi a strumenti ed obiettivi completamente differenti rispetto a quelli che, per anni, ne hanno caratterizzato la quotidianità.
L’età media, le competenze e la formazione
La loro formazione, senza che di ciò abbiano colpa, non è originaria, ma innestata e posticcia, spesso inadeguata.
Se la Germania impiega nella propria pubblica amministrazione il 30% di giovani, e la Francia il 21,2%, noi siamo fanalino di coda in Europa, con un magro 2,2%.
In compenso guidiamo la classifica per il numero di dipendenti over 45, che da noi rappresentano il 45,3% del totale. Si tratta di numeri di molto superiori a quelli di Germania e Francia, in cui questa quota raggiunge rispettivamente il 20 e il 23,9%.
Purtroppo, peraltro, siamo di fronte ad una tendenza che non sembriamo minimamente propensi a correggere: nel quinquennio 2010/2015, mentre Germania e Francia sono riuscite a mantenere l’aumento della quota di over 55 sotto il 3%, in Italia questa classe di età è cresciuta del 14,6%.
Sempre secondo le ultime statistiche disponibili, nel 2019 solo il 30% degli over 55 italiani aveva una competenza informatica di base, e soltanto il 13% era in possesso di competenze specifiche e avanzate.
Si tratta di un contesto in cui appare comprensibile l’enfasi con la quale il ministro Brunetta ha invocato, quasi fosse una chiamata alle armi, il massiccio ritorno del personale ai propri uffici di competenza.
Le competenze digitali dei dipendenti pubblici: una sfida per la ripresa del paese
Il nodo della sicurezza cyber: un costo a cui prepararsi
Nella futura convivenza tra lavoro tradizionale e agile, tuttavia, a prescindere dalle considerazioni anagrafiche, esistono ulteriori profili di delicatezza.
Uno di questi attiene, senz’altro, al tema della sicurezza: lo smart working prevede un incremento di tecnologie, quindi di rischi, in un mondo globalmente caratterizzato da cyber minacce sempre più pericolose.
Il 2020 risulta l’anno che ha registrato il maggior numero di attacchi informatici nella storia del nostro Paese, almeno fino a quando, chiudendo il 2021, tireremo le somme e, probabilmente, ci accorgeremo che il risultato dello scorso anno è stato surclassato da quello prodotto nell’anno in corso.
Ipotizzando una fisiologica progressione costante degli attacchi, il “Rapporto Clusit 2021 sulla sicurezza ICT in Italia” ha stimato che, nel 2024, le perdite per l’Italia potrebbero sforare i 20/25 miliardi di euro.
Si tratta di un costo cui ci dovremmo preparare ma che non siamo pronti a sopportare.
È un tema che riguarda da vicino il lavoro agile: le statistiche mostrano come i pc personali dei lavoratori rappresentino uno degli elementi di maggiore vulnerabilità, tanto che nel 2021 gli attacchi che hanno preso di mira questi obiettivi – circa 85.000 – sono stati all’incirca doppi rispetto all’anno precedente.
Tirando qualche prima somma, in definitiva, si può concludere che affronteremo la transizione al digitale e procederemo all’implementazione sistematica dello smart working nel nostro modello di pubblica amministrazione, con un numero significativo di dipendenti non adeguatamente formati, in un contesto di fondo caratterizzato da minacce informatiche esponenzialmente crescenti.
Ce n’è abbastanza per mantenere altissimo il livello di guardia.
Cosa deve cambiare per evitare schizofrenia tra lavoro agile e in presenza
Non è un caso, allora, che due punti qualificanti delle linee guida si focalizzino proprio su questi aspetti.
Da un lato, difatti, è previsto che il lavoratore che faccia richiesta di usufruire dello smart working frequenti corsi di formazione, allo scopo di apprendere l’uso delle piattaforme di comunicazione e degli altri strumenti necessari per lavorare a distanza.
D’altro lato, mutuando le parole del Ministro Brunetta, è previsto che l’amministrazione di appartenenza fornisca al lavoratore tutta la strumentazione tecnologica necessaria per lavorare da remoto ed accedere ai server dell’amministrazione in sicurezza, garantendo la privacy delle informazioni e dei dati trattati.
Per altro verso, tuttavia, esiste un intricato profilo di potenziale incoerenza tra lavoro agile e tradizionale che le linee guida potrebbero non avere inquadrato ma che, in prospettiva, dovrà senz’altro essere messo a fuoco e risolto.
La filosofia del lavoro agile, difatti, non prevede solo che venga intrapresa una fase di adattamento all’uso delle nuove tecnologie, ma propone l’assimilazione di un modello originale di erogazione della prestazione professionale.
La valorizzazione dei risultati
Il risultato di questo percorso dovrebbe condurre non solo a cambiare il modo di lavorare, poiché per certi versi è proprio l’essenza stessa del lavoro da compiere che dovrebbe evolvere.
Si tratta di un meccanismo che ha trovato in questi tempi una significativa accelerazione, ma la cui ispirazione risale ad alcuni provvedimenti normativi ormai datati.
Le linee guida illustrate dal ministro Brunetta, difatti, si muovono sul solco della legge 81/2017, che per prima ha previsto la possibilità, per i lavoratori, di organizzare le proprie mansioni in forma sostanzialmente indipendente senza vincoli specifici in tema di orario, con una produzione organizzata per fasi, cicli ed obiettivi.
Un lavoratore, in prospettiva, destinato a diventare sempre di più “capo di sé stesso”, meno vincolato a scansioni temporali, al quale verrà essenzialmente richiesto di produrre risultati, non ore lavorative.
La valorizzazione dei risultati è però uno dei problemi più seri della nostra pubblica amministrazione, ancora molto condizionata dalla mentalità del cartellino timbrato e del lavoro misurato sulla base del tempo trascorso in ufficio.
Rischia, in assenza di significativi cambiamenti, di svilupparsi una forma di schizofrenia tra il lavoro agile e quello svolto in presenza, ancorati a idee di fondo profondamente differenti.
Misure adeguate per combattere il tecnostress
La quantità del tempo dedicato alla prestazione, nell’ottica dello smart working, non è un elemento di valutazione e merito del lavoratore, anzi, considerate le distorsioni che la perenne connessione alla rete può provocare, diventa perfino un rischio da ridurre.
Già da tempo si analizzano i risultati del cosiddetto tecnostress e di quello che alcune ricerche mediche hanno descritto come workhaolism, cioè dipendenza da lavoro, alimentata da una realtà priva di interazioni tra colleghi, associata a strumenti tecnologici che non lasciano mai soli e che consentono alle richieste di raggiungere il lavoratore ovunque.
Le linee guida annunciate dal Ministro Brunetta, in quest’ottica, recepiscono le spinte politiche che negli ultimi tempi si sono registrate sull’esigenza di riconoscere ai lavoratori una forma di diritto alla disconnessione.
L’accordo tra l’amministrazione e il dipendente, difatti, dovrà individuare una “fascia di inoperabilità”, cioè una disconnessione, durante la quale il lavoratore non dovrà lavorare né gli si potrà richiedere alcuna prestazione lavorativa.
Conclusioni
Sono in definitiva tanti gli snodi che dovrà superare il processo evolutivo della pubblica amministrazione alla quale, con ogni probabilità, non potrà riconoscersi lo storico alibi della mancanza di fondi.
Il PNRR, difatti, assegna al capitolo relativo alla digitalizzazione della PA 42,55 miliardi di euro.
Un pacchetto corposo che comprende un ampio numero di interventi, che spaziano dai dati pubblici, passano per le infrastrutture digitali, e arrivano alla cybersicurezza e alla definizione delle competenze digitali di base.
L’esigenza indifferibile di ammodernare i nostri uffici e la disponibilità dei fondi necessari per riuscirci ci pone di fronte a un bivio e alla necessità di imboccare la strada giusta.