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La PA continua a produrre carta, ma non ha più alibi: ecco perché

Sbaglia la PA a usare il DPCM 21 marzo 2013 come fondamento giuridico per giustificare la perdurante produzione di documenti cartacei nella PA. Prevale infatti ormai l’art. 40 del CAD. tutti i documenti delle PA devono essere formati in modalità digitale e conservati secondo le attuali regole tecniche

Pubblicato il 17 Gen 2017

Andrea Lisi

Coordinatore Studio Legale Lisi e Presidente ANORC Professioni, direttore della rivista Digeat

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La memoria diminuisce se non la si esercita. Il monito dell’autore latino Quinto Ennio echeggia più che mai attuale per supportare la memoria nella svolta dall’epoca analogica a quella digitale, sforzo implicitamente accompagnato dal costante timore di non riuscire ad affrontare correttamente la dematerializzazione o perlomeno, di non farlo con gli strumenti e le metodologie appr

opriate.

Si finisce così per restare aggrappati ad abitudini nostalgiche e rassicuranti, consolidate nella prassi del contesto analogico, ma del tutto insufficienti ad essere adattate al nuovo ambiente digitale. Ė il caso delle Pubbliche Amministrazioni e delle disposizioni in materia di conservazione degli originali analogici unici, previste per alcune tipologie documentali, così come disciplinato dal DPCM del 21 marzo 2013. Il decreto, la cui pubblicazione in Gazzetta Ufficiale risale al 6 giugno 2013, individua ai sensi dell’art. 22, comma 5, del Codice dell’amministrazione digitale (D.lgs. n. 82 del 2005) le «particolari tipologie» di documenti per le quali, in ragione di esigenze di natura pubblicistica:

  • Permane l’obbligo della conservazione dell’originale cartaceo (e per le quali, dunque, non è possibile procedere alla conservazione sostitutiva[1]), tra questi ultimi troviamo, a titolo di esempio: gli atti giudiziari, processuali o di polizia giudiziaria e gli atti notarili.
  • Ė possibile dematerializzare e conservare digitalmente, garantendo la conformità all’originale attraverso l’autenticazione da parte di un notaio o di un altro pubblico ufficiale, ad esempio: decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, decreti ministeriali, interministeriali o ancora i titoli del debito pubblico;

Il DPCM in commento si rivela utile altresì ad individuare un’ulteriore categoria per nulla residuale di documenti analogici unici, che non sono stati espressamente ricompresi in quelle appena menzionate, per i quali è possibile mettere in atto un processo di conservazione sostitutiva senza che la loro conformità all’originale debba essere autenticata da un notaio o da altro pubblico ufficiale a ciò autorizzato con apposita dichiarazione firmata digitalmente e allegata al documento informatico. Inoltre, occorre precisare che il decreto lascia comunque alle pubbliche amministrazioni un ampio margine decisionale, garantendo la facoltà di conservare, in originale analogico unico, tipologie di documenti diverse da quelle già stabilite dal legislatore, elencate nello specifico nella tabella A contenuta nell’allegato al decreto.

Tuttavia – considerando anche la ratio del DPCM del 21 febbraio pensato specificamente per regolamentare un’eccezione nella già più volte confermata scelta del legislatore verso il cd. “digital first” – alla luce dell’ultima riforma che ha investito il Codice dell’amministrazione digitale, con D. Lgs. n.179/2016, occorre operare alcune precisazioni, specie in relazione alla residuale permanenza di «abitudini» legate ad un passato analogico, trasposte in maniera non del tutto convincente in ambiente digitale, per quanto concerne, nello specifico, la pars conservativa. Ė proprio in merito a quest’ultimo nodo che occorre fare chiarezza: sebbene sia sempre opportuno considerare il documento nell’ambito del suo intero ciclo di gestione[2], dunque in termini di custodia ininterrotta (la cosiddetta unbroken custody, concetto di derivazione anglosassone), il Legislatore ha ritenuto legittimo intervenire nella sola fase conservativa di quei documenti già da tempo formati su carta, probabilmente proprio per timore di perdere quella memoria per la quale inizialmente non si disponeva di metodologie e strumenti sufficientemente rassicuranti per garantire la custodia nel lungo periodo[3]. A rigore di legge, dunque, l’ambito di applicazione del DPCM 21 marzo 2013 si riferisce ad una produzione antecedente alla vigenza dell’art. 40[4] del CAD (in base al quale le pubbliche amministrazioni hanno l’obbligo di formare gli originali dei propri documenti con mezzi informatici) o, a voler essere elastici, fino all’emanazione del DPCM 13 novembre 2014, in materia di formazione dei documenti. Il DPCM del 21 marzo 2013 non interviene pertanto sulla formazione dei documenti, ma si occupa esclusivamente di individuare le modalità di conservazione (quindi disciplina una fase successiva a quella della formazione) di determinate – al limite del tassativo – tipologie documentali, che sono quindi eccezionali rispetto alla generalità dei documenti che hanno un rilievo pubblicistico (infatti il comma 5 dell’art, 22 del CAD parla di «particolari tipologie»).

Pertanto, non ci appare corretto utilizzare -com’è stato avanzato in alcuni contesti- il DPCM 21 marzo 2013 come fondamento giuridico volto a giustificare la perdurante produzione di documenti cartacei nella PA, data la cogenza dell’art. 40 del CAD (norma di rango superiore e oggetto di una recentissima revisione). D’altra parte, non esistono norme che ostino alla produzione di copie autentiche cartacee per le esigenze dell’Ente, a patto però che l’originale informatico sia opportunamente formato, gestito e conservato in modalità digitale. In tema di conservazione è utile ribadire il principio sancito dall’art.42 del CAD, in base al quale «Le pubbliche amministrazioni valutano in termini di rapporto tra costi e benefici il recupero su supporto informatico dei documenti e degli atti cartacei dei quali sia obbligatoria o opportuna la conservazione e provvedono alla predisposizione dei conseguenti piani di sostituzione degli archivi cartacei con archivi informatici, nel rispetto delle regole tecniche adottate ai sensi dell’articolo 71». In tal caso l’esercizio della memoria si avvale di strumenti, quali i piani di sostituzione degli archivi cartacei che anzi, spronano ad affrontare la paura della dematerializzazione, “esercitando” la memoria in termini di innovazione e beneficio della pubblica amministrazione.

Quindi, ci piaccia o non ci piaccia, non ci sono più alibi o eccezioni: secondo il Codice dell’amministrazione digitale tutti i documenti delle PA devono essere formati in modalità digitale e conservati secondo le attuali regole tecniche contenute nel DPCM 3 dicembre 2013. Eventualmente le PA per determinate tipologie di documenti informatici di natura vitale[5] possono, in via del tutto eccezionale e motivando tale scelta nei propri manuali di gestione, decidere di generarne una copia cartacea di cui sia garantita la conformità per preservarla nel tempo anche in un separato archivio di natura analogica.

[1] La “conservazione sostitutiva” – termine caduto un po’ in disuso e appartenente originariamente alla deliberazione CNIPA n. 11/2004 – auò essere definita come quella procedura legale/informatica volta a garantire nel tempo la validità legale di un documento, di cui si acquisisce la copia informatica dall’originale formato su supporto analogico e che viene immediatamente garantita da un idoneo sistema di conservazione di documenti informatici.

[2] Definito nell’allegato 1 delle Regole Tecniche come «arco temporale di esistenza del documento informatico, del

fascicolo informatico, dell’aggregazione documentale informatica o dell’archivio informatico dalla sua formazione alla

sua eliminazione o conservazione nel tempo»

[3] Si ricorda a tal proposito che il DPCM 21 marzo 2013 ha visto la luce ben prima della riforma delle regole tecniche contenute nel DPCM 3 dicembre 2013, in materia di conservazione di documenti informatici.

[4] L’art. 40 del CAD, peraltro oggetto di recentissima revisione ad opera del D.Lgs. 179/2016, prevede al comma 1 che «Le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti, inclusi quelli inerenti ad albi, elenchi e pubblici registri, con mezzi informatici secondo le disposizioni di cui al presente codice e le regole tecniche di cui all’articolo 71.», senza prevedere oggi alcuna eccezione in un futuro DPCM prima previsto nei successivi commi dello stesso articolo che sono stati oggi abrogati.

[5] Per documenti vitali si intendono “quei documenti la cui conservazione è essenziale per l’attività e l’esistenza stessa dell’ente, per la protezione dei suoi interessi e per la garanzia dei diritti dei cittadini” (definizione di Luciana Duranti)

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