Con il profilarsi all’orizzonte del PNRR (Next Generation EU) e dei fondi della programmazione 2021-2027 (nel quadro del “decennio digitale europeo”) riparte il dibattito sugli ostacoli italiani all’attuazione concreta dell’innovazione.
Di recente il Ministro Roberto Cingolani ha affermato “troppi giuristi e un approccio leguleio al ministero della Transizione ecologica” esprimendo preoccupazione sulla capacità di realizzare opere e progetti. Ma già il rapporto Giannini del 1979 definiva “semplicistiche le indicazioni delle ragioni nella preparazione eminentemente giuridica dei dirigenti” mentre per i “cultori di scienze dell’organizzazione la ragione prima risiederebbe nel fatto che alle tecniche di amministrazione si è pensato poco”.
Il cambio di mentalità che serve
Il problema non si risolve mettendo di nuovo in campo un “duello” tra tecnici-giuristi e tecnici-informatici/organizzativi, ma facendo sì che le persone in qualsiasi ruolo chiave/decisionale possiedano la consapevolezza digitale necessaria per quello specifico ruolo, e non mettendo degli informatici al fianco (o al posto) di giuristi, medici e imprenditori. E per questo il problema non è facilmente risolvibile con corsi di massa come si è fatto per passare dalla macchina per scrivere ai primi PC. Non si tratta di imparare ad usare un nuovo strumento più efficiente, ma un cambio di mentalità e l’accettare che ci siano oggi modalità completamente diverse per fare quello che si è sempre fatto. Anche dal punto di vista formativo, servono interventi molto più mirati e non i corsi frontali fatti “con lo stampino” che si trovano davanti i volenterosi che si affacciano per capire il mondo digitale.
La parola transizione viene dal latino “transire” ovvero passare da un modo di essere a un altro, da una condizione ad un’altra. La transizione digitale riguarda più che altro le persone che devono passare ad un mondo ormai digitale. Il che non vuol dire un mondo virtuale, fittizio… perché le nuove possibilità offerte dal digitale si sommano e cambiano quelle tradizionali fisiche.
L’importanza dell’eLeadership
Qualche esempio di consapevolezza digitale parte dell’e-leadership:
- non è necessario che un ufficio legislativo scriva algoritmi di “machine learning”, ma sicuramente deve dare valore al fatto che sugli atti legislativi e di policy sia fatta una valutazione di impatto digitale (ICT impact assessment);
- non è necessario che un “ingegnere capo” di un comune sappia invocare una “interfaccia API”… ma sicuramente deve richiedere tassativamente che da subito si utilizzi in ogni opera pubblica che passa dall’ufficio un “Building Information Modeling” (BIM);
- non è necessario che un dirigente delle “risorse umane” sappia configurare un “firewall”, ma deve sapere che è prioritario individuare quei profili professionali che permettano alle PA di esprimere una committenza qualificata di ICT sulla sicurezza informatica oppure figure certificate per il “project management” di progetti di trasformazione digitale.
La transizione digitale riguarda tutti, scomoda tutti, nessuno escluso, cambiando il modo di lavorare e organizzare il lavoro in tutti i settori. Oggi, chiunque in un ruolo di vertice dovrebbe porre la transizione digitale come priorità. Sta qui, in fondo, la e-leadership: essere consapevoli che non si può lavorare come si è sempre fatto.
Anche assumendo in fretta, avremo solo “ghetti nerd” dentro le amministrazioni e in ogni caso senza diffusa consapevolezza di e-leadership non si riuscirà mai ad assumere profili professionali di questo tipo e neanche assicurare che esistano dei “percorsi di carriera” negli enti che possano attrarre talenti.
Quindi tecnici-giuristi e tecnici-informatici di buona volontà dovrebbero unire le forze, invece di litigare tra loro come i “capponi di Renzo”.
Le criticità sono, a mio avviso, principalmente l’assenza di:
- percorsi di carriera internamente alle PA per attrarre talenti ICT;
- procedure/criteri per individuare le professionalità necessarie alla transizione digitale;
- chiarezza sul ruolo del “Responsabile per transizione digitale” nella transizione digitale;
- studi di fattibilità e progettazione delle “opere pubbliche digitali”.
Quale carriera interna nelle PA?
Il discorso sulla carriera nelle PA meriterebbe un discorso molto ampio, perché bisognerebbe cambiare tutto il sistema di reclutamento, i meccanismi di progressione verticale barocchi e ri-concorsuali e andrebbe ridimensionata/annullata la completa separazione tra comparto e dirigenti. Nella PA si entra in una casella e lì si resta, le persone dovrebbero invece sapere quale percorso di carriera hanno davanti, sia che si occupino di appalti innovativi che di sicurezza informatica. Forse andrebbero rivalutati sia quanto previsto dal vecchio dPR n.3/1957, sia i tempi in cui il bravo vicepreside, dopo molti anni, diventava preside. C’è molto da fare per il Ministro della Funzione pubblica, perché è inevitabile infornare assunzioni di “tecnici” in tre mesi per far fronte al PNRR, ma dobbiamo trovare una via perché dal PNRR esca una PA molto diversa dall’attuale.
All’articolo 97 della Costituzione sta scritto “Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”, ma non c’è scritto che non può esistere un percorso di carriera da sviluppare internamente alle PA, dopo che si ha avuto accesso inizialmente per concorso e non c’è scritto che non ci possono essere famiglie professionali specializzate in cui, iniziando dalla categoria C o D sia possibile arrivare ad un ruolo di dirigenza attraverso percorsi di carriera che sarebbero ritenuti normali in qualsiasi organizzazione privata (e anche pubblica all’estero). Per non parlare delle illegittimità legate agli incarichi dirigenziali a contratto che sviliscono ogni spinta alla crescita per le professionalità interne.
I numeri dicono che nelle PA i laureati oggi sono solo il 35% (vedere blog Oliveri). Tra i laureati, quelli in giurisprudenza (i “giuristi”) sono il 10% mentre gli ingegneri sono il 3,9%. Il problema non è, quindi, il numero dei giuristi, ma che gli ingegneri sono il 3,9% e, presumo, quasi tutti del settore civile-ambientale.
Ma senza una riforma delle carriere, difficilmente la PA può attirare oggi laureati.
Inoltre, bisognerebbe poter analizzare le percentuali riferite alle lauree possedute dai profili di vertice (capi di gabinetto, direttori e dirigenti) perché difficilmente esistono ruoli di vertice legati al digitale, quindi, inevitabilmente, la percentuale sarebbe bassa.
Ma i dati in merito non sono facilmente reperibili e sono aggiornati ad anni fa… d’altronde non essendoci ruoli e professionalità legati ai dati questo è normale :-). Si vede che ai vertici politici ed amministrativi non è considerato un problema allarmante che i dati non ci siano e che si decida a intuito.
Giannini nel 1979 diceva: “E’ certo causa di amarezza constatare che lo Stato non sa di se stesso ciò che il più semplice imprenditore sa della propria impresa”.
Persino di fronte all’emergenza della pandemia COVID-19, non c’è stata una presa di coscienza dello stato preoccupante dei processi di corretta gestione dei dati pubblici (data quality) come se il problema fosse solo la mancata pubblicazione degli open data, quando, in molti casi, i dati proprio non ci sono.
Quali figure servono per la transizione digitale
Il cambiamento culturale a cui si è fin qui accennato è, per forza di cose, lento e in Italia non è nemmeno iniziato, mentre il PNRR incombe. Quindi una cosa è sicuramente urgente: definire subito a livello nazionale i profili professionali necessari alla transizione digitale e i loro requisiti minimi.
Oggi nelle PA una specializzazione (e una carriera) di questo tipo è riconosciuta solo ad alcune professioni ordinistiche, in particolare agli ingegneri civili e ambientali per quanto riguarda le opere pubbliche.
Nell’ordine degli ingegneri, esisterebbero anche il settore degli “ingegneri dell’informazione”, ma non gli viene riconosciuto un ruolo preciso nonostante le norme, in realtà, già lo definiscano con chiarezza (quantomeno per le infrastrutture digitali) ma sono norme solitamente disattese.
Lo scopo degli ordini è tutelare i cittadini rispetto a prestazioni professionali di tipo intellettuale di particolare rilevanza per la vita del Paese.
Vogliamo dire che la transizione digitale è un tema oggi di poca rilevanza?
Naturalmente non sto sostenendo che per fare lo sviluppatore software sia necessario essere iscritti all’ordine, ma è il momento giusto per interrogarsi su quali abilitazioni, requisiti e competenze debba possedere chi guida uffici, processi e progetti di trasformazione digitale nelle PA.
Il CAD all’art.17 dice che il Responsabile per la Transizione Digitale (RTD) “è dotato di adeguate competenze tecnologiche, di informatica giuridica e manageriali”. Vogliamo dire, con chiarezza, che si tratta di una formulazione ambigua che anche un leguleio junior può riuscire ad interpretare come valido per chiunque? Qualcuno sa dire a quali ordini o profili professionali ICT si deve far riferimento?
Molte volte nel CAD siamo al livello delle gride manzoniane. Molti articoli del CAD andrebbero abrogati.
La transizione coinvolge il Responsabile per la Transizione Digitale?
Occorre chiedersi quale ruolo avrà il RTD nel PNRR, ovvero se il Responsabile per la Transizione Digitale avrà un ruolo nella transizione digitale. Non è un paradosso, è un rischio concreto.
Responsabile per la Transizione al digitale: funzioni, nomina e stato dell’arte
Nel PNRR ci saranno ingenti risorse per finanziare la transizione 4.0 delle imprese, e queste risorse sono legate al coordinamento del MISE e non vedranno i RTD delle amministrazioni come parte attiva nel gestire i finanziamenti, ma comunque i RTD possono spingere nelle PA quelle azioni che possono fare da “driver” per spingere il cambiamento anche nel settore privato (ad esempio l’interoperabilità o il BIM) laddove questo non faccia investimenti autonomi.
Nel PNRR ci saranno anche risorse per la transizione dei servizi digitali nelle PA, e qui il ruolo dei RTD non dovrebbe essere in discussione. Sempre che il RTD sia nominato, abbia le competenze di cui si è parlato e abbia effettivamente un ruolo trasversale nelle amministrazioni.
Occorre quindi che il Ministero della transizione digitale (insieme a Dipartimento, AgID e PagoPA) valorizzi con decisione il ruolo del RTD negli investimenti per la transizione digitale delle PA. Non è affatto detto che nei ministeri e nelle varie PA coinvolte dal PNRR le decisioni tecniche sugli investimenti del PNRR passino effettivamente dal RTD.
Costruire opere pubbliche digitali?
Altro elemento urgente è cambiare l’interpretazione corrente secondo la quale i progetti ICT e di trasformazione digitale rientrano tra le “forniture di beni e servizi”. Non è così, perché quelli da mettere in campo con il PNRR sono progetti complessi in cui si intrecciano elementi tecnologici e gestionali, e non si tratta certo di acquistare stampanti (beni) o appaltare la manutenzione delle postazioni di lavoro (servizi).
Per evitare di coniare una nuova tipologia di appalto pubblico, bisogna trattare progetti ICT e di trasformazione digitale come fossero “opere pubbliche”, prevedendo obbligatoriamente tre livelli di progettazione (progetto di fattibilità tecnica, progettazione definitiva, progettazione esecutiva) e tutto quanto è ritenuto normale in campo ingegneristico quando si parla di edifici, ponti, ecc. E questo deve essere vero non solo per le infrastrutture digitali ma anche per qualsiasi progetto sopra soglia. Oggi progetti ICT milionari non hanno neanche uno straccio di documentazione formale di fattibilità su cui qualcuno abbia assunto una precisa responsabilità (vorrei ricordare che in fondo al progetto di un ponte c’è una firma di qualcuno che si assume una responsabilità se il ponte cade). Sulla necessità degli studi di fattibilità e sulla responsabilizzazione nei progetti ICT invito a rileggere cosa diceva Osnaghi nel 2017 e anche prima.
Italia digitale, servono studi di fattibilità per uscire dal pantano
Trattare i progetti di trasformazione digitale come opere pubbliche permetterebbe anche di avvicinarci di più agli unici ambienti in cui in Italia si fanno effettivamente appalti con dialogo competitivo e project financing. Ad oggi, per una fornitura di beni e servizi, invece, non è obbligatorio nemmeno un progettista con precisi requisiti o un direttore dell’esecuzione a supporto del RUP.
Chiunque oggi scommetterebbe che l’infrastruttura del futuro sono i dati… Eppure nelle pubbliche amministrazioni, in genere, non viene ritenuta necessaria nessuna professionalità specifica per costruire e mantenere tale infrastruttura, nessun ruolo di responsabilità è associato trasversalmente ai dati.
Per cambiare volto all’Italia forse servirebbe persino un “Consiglio superiore della transizione digitale” così come esiste un “Consiglio superiore dei lavori pubblici” al Ministero delle infrastrutture (non digitali). Non sarebbe solo un atto simbolico, visto che gli ingenti investimenti che si andranno a fare richiedono sicuramente attente valutazioni tecniche indipendenti (e la rimpianta Autorità AIPA non c’è più) oltre che un coordinamento politico (che è stato istituito con il Comitato inter-ministeriale CITD).
Il Consiglio superiore dei lavori pubblici (art.215 del d.lgs n.50/2016) è il massimo organo tecnico consultivo dello Stato, cui è garantita indipendenza di giudizio e valutazione tecnico-scientifica. L’organo nasce ad inizio 800 per regolare la costruzione di ponti e strade, ovvero guidare lo sviluppo infrastrutturale di allora. Quali infrastrutture dobbiamo costruire oggi?
Qualcuno dirà: per carità altre norme, altri carrozzoni… perchè “All’uomo impicciato, quasi ogni cosa è un nuovo impiccio!” diceva il Manzoni. Ma qualcosa bisogna pur cambiare se le cose non vanno.
NEXT GENERATION ICT
Il Ministro Colao ha annunciato che l’Italia vuole raggiungere entro il 2026 gli obiettivi fissati in Europa per il 2030. Questo passa per prima cosa dall’individuazione delle professionalità necessarie oggi alle PA e dal ridare valore alle professioni tecnico-scientifiche (sia passate che future).
Non per niente anche l’OCSE ci dice che abbiamo pochi laureati in discipline scientifiche rispetto agli altri paesi avanzati, quindi nel PNRR si pone anche il problema di valorizzare le discipline STEM, non è solo nella PA ma in tutta la società, altrimenti il gap di produttività dell’Italia aumenterà inevitabilmente in un mondo sempre più digitale. Senza laureati in discipline scientifiche, tutto il valore indiscutibile della nostra cultura umanistica rischia di sparire, travolto da chi corre su binari digitali pur senza radici.
Il rischio è che con il PNRR partano progetti di transizione digitale costruiti sulla sabbia, buoni solo per l’ennesima conferenza stampa condita dei roboanti slogan del momento: “piano e-gov”, “amministrazione digitale”, “agenda digitale”, “trasformazione digitale”, “smart-tutto”, “bussole” e “decenni digitali europei”.
L’Italia non deve restare una repubblica immobile.
* L’autore è responsabile delle architetture per l’ICT in Regione Umbria ma scrive a titolo personale.