In questi anni abbiamo sperimentato un cambiamento nell’organizzazione del lavoro che ha consentito a molti di graduare la propria presenza in ufficio, potendo erogare parti più o meno ampie e rilevanti delle prestazioni lavorative da remoto, in modo più o meno agile (con vincoli più o meno laschi) e intelligente (ovvero passando da una misurazione analogica sostanzialmente identificabile con la presenza ad una per obiettivi e risultati).
Smart working, se lo conosci non ti danneggia: norme, rischi e tutele
Sicuramente, come molti studi hanno sottolineato, l’organizzazione ideale per una erogazione efficiente per le parti (lavoratori e imprese) prevede un ambiente connesso, un disegno della produzione dei beni e servizi integrato fin dall’origine con la tecnologia e una organizzazione del lavoro con set valoriali aggiornati, non la replica delle norme sociali e dei costumi economici tradizionali. Questo processo di crescita e aggiornamento del sistema produttivo è in corso, veloce, ma non uniforme, con settori che vedono grandi possibilità (più risparmi, più efficienza, più qualità) e altri che sono titubanti.
Ma se alcuni settori hanno il vincolo della tipologia di prestazione (lavori non telelavorabili), altri semplicemente stanno facendo marcia indietro (Mandrone, 2023), tornando di fatto all’assetto pre-covid, convinti che la presenza sia ancora una necessità produttiva. In altre parole, anziché fare l’up-grade del sistema si cerca di ripristinare l’ultimo backup!
Importanza del lavoro agile
Il lavoro si sta polarizzando tra impieghi tradizionali da rendere in presenza e che non richiedono una presenza fissa. Tuttavia, è recente questa identificazione funzionale. Il lavoro agile non è nato oggi. Erano già lavoratori agili i giornalisti che dettavano i loro articoli al telefono alla redazione, erano smart ante litteram quei professori che correggevano i compiti dei loro studenti sul treno tornando a casa, erano inconsciamente lavoratori da remoto quegli architetti che disegnavano il nostro armadio dal loro soggiorno. La tecnologia ha esteso le possibilità di lavorare da remoto, lo ha reso popolare. È uno degli aspetti di un più generale processo di fluidificazione dell’attività economica e sociale, una tendenza alla destrutturazione delle categorie classiche, ormai spesso retaggio del passato, a volte con definizioni anacronistiche. Non è tanto la forma che prende il lavoro quando è inserito nel contenitore (mansione, contratto, funzione) quanto la relazione tra il lavoratore e l’organizzazione cui è solidale. Questo modo diverso di vedere il lavoro, il lavoratore e la prestazione sono il vero cambiamento. Questa è la vera new economy: possibilità nuove che danno luogo ad attività nuove, bisogni diversi, soluzioni alternative, relazioni non lineari… Serve pensiero critico, capacità di connessione, cultura e competenze.
Il lavoro da remoto oggi è un’opzione disponibile per molti (Inapp Policy Brief, 2022). Va democratizzato perché spesso risulta un privilegio e reso strutturale nelle organizzazioni sociali e produttive. Serve una premialità per obiettivi, è necessario aggiornare il capitale umano, adeguare le norme, le case, i processi produttivi, gli ambienti lavorativo, ibridazione delle mansioni… insomma, bisogna imparare ad essere smart. Per farlo serve una adeguata elaborazione culturale dei lavoratori e delle imprese e governo della complessità (si veda Rapporto Plus 2022, Governare la complessità del lavoro). Cosa vuol dire? In un sistema è il componente più lento che ne determina la velocità.
Lavoro da remoto e innovazione tecnologica
Pertanto la propagazione dell’innovazione tecnologica ed organizzativa deve procedere in tutti gli ambiti. Infatti, se i settori a bassa innovazione tecnologica registrano livelli di lavoro da remoto bassi (20-25%) quelli che hanno innovato di più hanno livelli di utilizzo del lavoro da remoto superiori (55-60%). La Pubblica amministrazione è esattamente a metà strada (Mandrone, 2021). Per questo il sostegno ad una domanda di lavoro qualificata è strategico e quanto mai opportuno perché è necessario il sistema abbia una dimensione tecnologica ad alto valore aggiunto che svolga l’attività di volano per l’innovazione che poi, indirettamente, produrrà effetti positivi su tutti gli ambiti produttivi e gli ambienti sociali.
Proprio per questo, il ripiegamento sul ricorso al lavoro da remoto che si sta delineando lascia trasparire una bassa coscienza del processo in cui siamo coinvolti e di come si rischi, non attrezzandoci tempestivamente e adeguatamente all’innovazione, di incorporare costi opportunità enormi in futuro. L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano nota come nel 2022 il lavoro da remoto continui a essere utilizzato in modo consistente, sebbene in misura minore rispetto all’anno precedente: 3,6 milioni, quasi 500 mila in meno rispetto al 2021. Il calo è soprattutto nella PA e nelle piccole e medie imprese, mentre si rileva una leggera ma costante crescita nelle grandi imprese che contano circa metà degli smart worker complessivi. Lo Smart Working è ormai presente nel 91% delle grandi imprese italiane, mediamente con 9,5 giorni di lavoro da remoto al mese e progetti che quasi sempre agiscono su tutte le leve che caratterizzano questo modello. Rallenta anche la diffusione nella PA, che passa dal 67% al 57% degli Enti, con in media 8 giorni di lavoro da remoto al mese. In questo caso a pesare sono soprattutto le disposizioni del precedente Governo che hanno spinto a riportare in presenza la prestazione di lavoro, ma per il futuro si prevede un nuovo aumento.
Potremmo parlare di un deficit tecnologico potenziale come di quel gap nell’adeguamento delle componenti del sistema alla frontiera delle opportunità tecnologiche disponibili. Le scelte vanno prese adesso, nell’interesse della comunità di oggi e di domani.
Molto interessanti sono le dichiarazioni del Ministro della Pubblica Amministrazione Zangrillo circa il cambio di approccio al digitale e quindi al lavoro reso digitalmente. Sostiene: “Nel 2022 i lavoratori agili nella PA sono 570mila e saliranno nel 2023 fino a 680.000. “serve una rivoluzione culturale organizzativa e la definizione, da parte di ciascuna amministrazione, di interventi finalizzati a rendere il lavoro agile pienamente efficace, senza pregiudicare i servizi erogati. La prima grande sfida che la PA deve affrontare è la trasformazione digitale. Si tratta di un processo che prevede profondi cambiamenti nelle strutture, nelle procedure e nei servizi. Dobbiamo accompagnare le persone, sia dipendenti che cittadini, in questo processo di trasformazione”. Serve inoltre “reingegnerizzazione e digitalizzare ben 600 procedure attualmente in essere che vanno dall’ambiente, all’energia, all’urbanistica, alla cittadinanza. Il Pnrr ci impone di censire, analizzare e semplificare tutte le procedure entro il 2026“.