Nel disegno di legge sul lavoro agile approvato dal Consiglio dei Ministri il 20 gennaio ci sono diversi elementi positivi, come ben evidenziato da Mariano Corso. A partire dalla scelta della terminologia utilizzata, “lavoro agile”, che italianizza lo smart working senza appiattirsi sulla dinamica personale (e spesso vista come “femminile”) della conciliazione del tempo vita-lavoro, come purtroppo fatto in ambito di legge delega per la riforma della PA dove si legge la previsione per “l’attuazione del telelavoro e per la sperimentazione … di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tali modalità” all’interno dell’articolo che ha per titolo “Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”. Dinamica personale e per casi eccezionali che è anche una delle cause di fallimento del telelavoro.
Le basi del disegno di legge sono ben poste, inoltre, su una definizione del lavoro agile come una “prestazione di lavoro subordinata che si svolge con le seguenti modalità: a) esecuzione della prestazione lavorativa in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva; b) possibilità di utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa; c) assenza di una postazione fissa durante i periodi di lavoro svolti all’esterno dei locali aziendali”
La scelta “lavoro agile” è così orientata a indicare una modalità di lavoro utile per tutti, non di nicchia e neppure di genere, che si contrappone a quella tradizionale come una modalità da preferire, proprio perché ciò che non è agile è rigido, e la rigidità non può costituire il “default”.
Ed è questo il punto che però il disegno di legge non sviluppa e che rappresenta, a mio avviso, la principale debolezza. Infatti, l’articolo 14 (in contraddizione stridente) tratta di fatto il lavoro agile come una forma eccezionale e che ha bisogno di una contrattazione specifica e individuale, al punto da prevedere una possibilità di recesso da “ciascuno dei contraenti”. Non solo, ma riporta il lavoro agile nella sfera personale, al di fuori della logica dell’attività lavorativa per cui è applicabile (o meno) questa modalità.
Questa scelta depotenzia di fatto la carica innovativa dell’introduzione del lavoro agile, che rischia di diventare, in questo modo, la forma evoluta del già fallimentare telelavoro, pochissimo utilizzato e tra mille difficoltà.
Quello che ci aspettava (e che positivamente ci si aspetta nelle modifiche dell’iter parlamentare) è, invece, il cambio di verso: non bisogna giustificare la singola applicazione di lavoro agile, ma motivare l’eccezione del lavoro non agile. Per le pubbliche amministrazioni, normativamente, tra l’altro, questo passaggio era stato fatto (ma oggi, pare, dimenticato) più di tre anni fa: nella legge 17 dicembre 2012, n. 221 di conversione del “Decreto Crescita 2.0” (dall’art. 9, comma 7) era stato introdotto l’obbligo di definire in ogni amministrazione un piano per l’utilizzo del telelavoro, un “telelavoro by default” poco applicato e mai controllato, dove alle amministrazioni si chiedeva di motivare, sulla base delle esigenze delle tipologie di attività, l’impossibilità di utilizzare la modalità del telelavoro. Passando dal telelavoro alla modalità più evoluta di lavoro agile, la logica non può che essere questa, legando la modalità di lavoro al tipo di attività. Anche nel privato, rendendo il lavoro agile la modalità di “default”, come di fatto sta avvenendo in molte realtà.
Certo, ci vuole il coraggio di un cambiamento davvero profondo, che nelle pubbliche amministrazioni può mettere in risalto le immaturità organizzative che impediscono di concepire (se non per virtuose eccezioni) il lavoro per obiettivi e il controllo sulle prestazioni e sui risultati e non sul rispetto dell’orario di lavoro.
Questa è la sfida vera per il parlamento: modificare l’orientamento del disegno di legge, aprendo le porte alla diffusione, nel privato ma soprattutto nel settore pubblico, di un nuovo modello di lavoro e di un cambiamento dei modelli organizzativi, con una trasformazione culturale significativa, sapendo che cambiamento e trasformazione che non possono realizzarsi contestualmente a costo zero, ma che, come tutti i virtuosi processi di miglioramento, prevedono un iniziale investimento, un break-even e un beneficio economico successivo e duraturo.
Altrimenti, ci ritroveremo con un’altra occasione perduta e non avremo rimosso uno dei maggiori ostacoli per la trasformazione digitale delle imprese e delle amministrazioni.