La Food and Drug Administration ha annunciato il via libera per le diagnosi genetiche “fai da te”: al “modico” prezzo di 199 dollari qualunque cittadino USA potrà ricevere a casa una sorta di provetta dentro la quale dovrà depositare un po’ di saliva per poi rimpacchettare il tutto e rispedirlo al mittente in attesa del responso.
199 dollari per conoscere in anticipo la predisposizione ad essere colpiti dal morbo di Alzheimer, dal Parkinson e da un’altra decina di malattie la cui evoluzione è scritta nel DNA.
Produttrice del kit è la californiana 23andMe, fondata nel 2006 da Anne Wojcicki, ex moglie di Sergey Brin (co-founder di Google) in compagnia di Linda Avey e Paul Cusenza.
Il “23”, ça va sans dire, sta per il numero di coppie di cromosomi ospiti delle cellule di un essere umano.
Il primo test “fai da te” venne messo in vendita nel 2007, al prezzo di 999 dollari: cinque anni dopo, costava 99 dollari e divenne un oggetto cult, tanto che nacquero persino delle piccole società specializzate nel fornire analisi di maggior dettaglio a partire dallo screening iniziale.
Nel 2012 la FDA ne sospese la vendita, costringendo 23andMe a confezionare di corsa una versione “ancestrale” (il cliente riceveva una serie di indicazioni sull’origine geografica del suo DNA, una sorta di “albero genealogico”) in attesa di ritornare sul mercato più squisitamente clinico dopo il processo di autorizzazione che si è concluso in questi giorni.
Oggi, dopo l’approvazione da parte di FDA, sul sito 23andMe è possibile acquistare la versione “ancestrale” a 149 dollari e – per il solo mercato USA – la versione “Health” a 199 dollari.
I maggiori analisti non hanno dubbi: tornerà ad essere un successo, se possibile più di prima in funzione del riconoscimento ottenuto dalla FDA.
Lasciando ovviamente ad esperti qualificati il compito di valutare la qualità del risultato che si ottiene acquistando il kit, vale la pena di fare invece qualche considerazione su quelli che possiamo definire i “dintorni” del business di 23andMe.
Non mancheranno ovviamente gli habituées del complotto, quelli che immagineranno le cose più nefande che si potrebbero fare giocando col DNA altrui: prima o poi sui social media qualcuno che se ne uscirà con un “quindi possono usare il mio DNA per clonarmi”. Lo possiamo dare assolutamente per scontato.
Il tema vero, aldilà del divertissement e della complottologia, sta nel trovare il “mezzo pieno” nel bicchiere.
Pensiamo – ad esempio – a quanto sarebbe interessante un lavoro congiunto degli ex coniugi Brin: la mappa del mio DNA sul server della (ex) moglie e il mondo delle mie abitudini e del mio stile di vita sul server del (ex) marito.
È altamente probabile che Google sappia molte cose di me, o comunque riesca a presumerle per approssimazioni successive sempre più vicine alla realtà: quanto inquinamento dell’aria c’è davanti a casa mia, quanto poco sport faccio, dove vado a mangiare e a fare la spesa, che taglia indosso, persino quanto sole prendo e quale liquore mi piace di più.
Il combinato disposto dei due set di informazioni, come è evidente persino a un profano, rappresenta un valore notevole: la probabilità che mi venga il diabete è sicuramente scritta nel DNA ma poi si traduce in probabilità concreta in funzione di fattori che hanno a che fare con l’ambiente e lo stile di vita del soggetto in analisi.
Detta così su due piedi, pare fantascienza.
Anche se alle orecchie di un data scientist questa fantascienza suona come musica celestiale.
Tornando coi piedi per terra, un ultimo commento: c’è sicuramente molto da discutere sul trend della cura della salute in modalità “self-service”. Aldilà del fenomeno più o meno modaiolo sotteso al business di 23andMe, quello che appare come il vero argomento è il discorso relativo alla capacità dell’individuo “medio” di comprendere e interpretare correttamente informazioni, indicazioni, consigli su tutto quello che afferisce al suo stato di salute o di malattia.
Per cui, se proprio vogliamo comprarci il kit di 23andMe, almeno poi facciamolo leggere al nostro medico!