Il tema delle società di informatica “in-house” è tornato di stretta attualità, ricompreso nel calderone complessivo delle società partecipate di regioni ed enti locali. E, inevitabilmente, torna a galla la madre di tutte le domande: “che fare?”.
Ci si interroga rispetto al loro futuro: ha senso, nel 2014, continuare a immaginare un futuro per quelle che qualche anno fa venivano più o meno scherzosamente chiamate “le piccole IRI dell’informatica regionale”?
Vale la pena di approfondire il ragionamento, partendo da una rappresentazione del contesto generale all’interno del quale si muove una galassia fatta di almeno una cinquantina di società regionali, provinciali e comunali che, tutte quante insieme, governano una spesa ICT annuale vicina agli 800 milioni di Euro, 700 dei quali fatturati dalle prime 12 società a dimensione regionale.
Partiamo dalle origini: fine degli anni ’70. Nascono le Regioni, e si apre contemporanamente un mercato: si sviluppa una forte domanda di software (prevalentemente, almeno nei primissimi anni, di tipo amministrativo-contabile) che non trova un’offerta capace di soddisfarla. Le multinazionali dell’IT di quei tempi (IBM, Bull, Digital, la vecchia Univac) non hanno “nulla di pronto”, e soprattutto non hanno le competenze di business specifiche per una domanda decisamente “di nicchia”.
Nascono così le prime società di informatica pubblica a livello regionale: CRUED in Umbria, il CSI (come Consorzio) in Piemonte.
Negli anni successivi tutto (salvo il CSI Piemonte) viene ricondotto a una logica di “partecipazioni statali”, con IRI e Bankitalia azionisti di maggioranza e un disegno ambizioso: diventare l’industria del software di Stato, mettendo insieme l’informatica della PA centrale (Sogei, TSF, Agrisiel) e regionale/comunale (le varie in-house territoriali).
Il resto è storia quasi recente: la cessione di Sogei al Ministero dell’Economia, la cessione di Finsiel a Telecom, l’acquisto delle quote private delle società regionali del gruppo (Insiel, Datasiel, Informatica Trentina, Webred) da parte delle rispettive amministrazioni regionali, il subentro di AlmavivA.
Ma cosa è cambiato, nel frattempo?
E’ cambiato tutto, ovviamente. Laddove non c’era – originariamente – un sistema d’offerta capace di rispondere ai bisogni della domanda (a livello regionale), adesso c’è addirittura un’abbondanza di offerta. E la domanda, nel suo complesso, sta fortemente ridimensionando i suoi budget.
Risultato finale: le in-house regionali cominciano a manifestare segnali di difficoltà. Ricavi (quasi sempre) in calo, margini ridotti all’osso (come è giusto che sia, trattandosi di società strumentali il cui ultimo dei problemi dovrebbe essere quello di “remunerare l’azionista”), prospettive sempre più fosche.
Non a caso, alcune regioni si stanno interrogando sul futuro delle loro in-house informatiche: tenerle, venderle in blocco, “spezzettarle”.
E non è un problema di poco conto: stiamo parlando di oltre 5.000 dipendenti e di un ecosistema di fornitori e subfornitori (prevalentemente di “body rental”) che dà lavoro ad altre 2.500-3.000 persone circa.
Stiamo parlando però anche di un sistema che produce decine di sistemi informativi praticamente identici fra loro: dieci software per la gestione della tassa automobilistica, dozzine di fascicoli sanitari elettronici, dozzine di sistemi informativi del lavoro, eccetera.
E’ chiaro che il sistema non può reggere, soprattutto in momenti di spending review: si fa fatica a pensare che ciascuna Regione possa permettersi il lusso di sviluppare e manutenere negli anni soluzioni sostanzialmente identiche fra loro. L’Osservatorio Netics stima che il sovracosto generato da questa tendenza allo sviluppo di soluzioni “custom” si aggiri intorno ai 150 milioni di Euro l’anno, su un totale di spesa IT delle Regioni italiane (nel 2013) attestata sui 700 milioni di Euro/anno circa.
Come se ne esce?
Lo scenario meno probabile è che si arrivi a una ricentralizzazione dell’informatica pubblica, con una sorta di “super in-house” che metta insieme SOGEI e le in-house regionali: fatturato intorno agli 1,2 miliardi di Euro l’anno, quasi 8.000 dipendenti, un sostanziale monopolio nel public sector “di fascia alta”.
Più probabile che qualche società in-house sia messa sul mercato, anche se non mancano precedenti finiti non proprio benissimo (la tentata vendita di Insiel di qualche anno fa, andata deserta) in presenza di vincoli stringenti che ovviamente le Regioni tenterebbero di imporre, a partire da quelli relativi alla non trasferibilità della sede e alla salvaguardia dei posti di lavoro.
Ciascuna singola in-house ha un’attrattività limitata nei confronti di potenziali acquirenti, per una serie piuttosto lunga di motivi.
Diverso il discorso se proviamo a immaginare un disegno complessivo: un sostanzioso numero di in-house (a tendere, anche tutte) messe sul mercato contemporaneamente. Ovviamente, prima dell’avvio delle operazioni di cessione ciascuna Regione “si tiene” un nucleo piccolo a piacere di persone da destinare alla governance dei sistemi informativi e al demand management.
In questo caso potrebbe non essere impossibile immaginare una cordata di imprenditori dell’IT disposta a ragionare intorno a un piano industriale capace di salvare “capra e cavoli”, lavorando sulla specializzazione (ciascuna delle attuali in-house diventa una sorta di “business unit” specializzata su un ambito specifico) e sulla messa a fattor comune degli asset.
Potremmo così evitare di alimentare scenari di “informatica bulgara” (con tutto il rispetto per la Bulgaria) e di carrozzoni di Stato dei quali si sente una nostalgia decisamente limitata.
La “software house di Stato”, peraltro, probabilmente collide con quello che sembra essere l’approccio dominante da parte di questo Governo, ossia la volontà di dismettere tutto il dismettibile.
Varrebbe la pena che Stato e Regioni (per inciso: pensare di ragionare sul futuro delle società partecipate dalle Regioni senza confrontarsi preventivamente con le medesime rischia di finire con un flop) si mettano seriamente a ragionare rispetto alla percorribilità di una strada come quella poc’anzi delineata, provando a “sondare il terreno” interpellando i grandi player privati dell’IT nazionale.
Magari non se ne fa nulla: ma, almeno, potremo dire di averci provato prima di ridar vita al Super Carrozzone di Stato.