Le giornate a ridosso di Digital Venice ce le ricorderemo come quelle nel corso delle quali il governo ha finalmente iniziato a metter mano, ridisegnandolo, al modello di governance dell’innovazione del Paese. Non è un caso se nella sua conferenza stampa Renzi, annunciando le nomine di Alessandra Poggiani, Stefano Quintarelli e Paolo Barberis, ha precisato che “nei prossimi giorni” il quadro verrà completato con la nomina di “ulteriori figure”: il Comitato di Indirizzo dell’AgID deve essere completato con le figure di riferimento espresse dai ministeri competenti (MISE, MIUR, MEF, PA), dalla Conferenza Unificata e dal Tavolo Permanente per l’Innovazione.
Si comincia a mettere ordine fra tavoli e cabine di regia nate negli anni scorsi in un fiorire di iniziative assolutamente encomiabili sul piano della buona volontà dei singoli ministri a vario titolo coinvolti sul tema dell’agenda digitale ma probabilmente non troppo caratterizzati da un ancorchè minimo “disegno a monte”.
Partendo, finalmente, dal ridare centralità al “tavolo permanente”: quello, per intenderci, aperto alla partecipazione di esponenti dell’industria e dell’università e da esperti in materia di innovazione tecnologica. Un organo consultivo il cui compito è assolutamente centrale: costruire la visione dell’Italia Digitale attraverso il contributo di tutti gli stakeholder, proponendo all’esecutivo (il quale, non dimentichiamocelo, deve continuare ad essere l’owner del processo di trasformazione del Paese) modelli di riferimento e ipotesi di lavoro.
Una volta messi a posto i nomi all’interno delle caselle, sarà fondamentale dare una ripassata al “chi deve fare cosa, quando, come e perché”. A costo di produrre una rappresentazione grafica a prova di stupido che riporti il “chi riporta a chi”, “chi emette gli input e chi produce gli output”, eccetera.
Perché l’agenda digitale (e, forse, si dovrà trovare un nuovo brand per uscire da equivoci non banali del passato più o meno prossimo) non può continuare a rimanere un sogno tecnologico. Qui dentro c’è tanta politica industriale e tantissima evoluzione sociale di una delle principali democrazie occidentali.
Prima ancora di arrivare a progettare le piattaforme di interoperabilità dovremmo decidere a cosa servono, perché le facciamo, quanto costano, quali vantaggi immediati ne deriveranno per la casalinga di Voghera e per il mio elettrauto sotto casa.
Dobbiamo decidere “per fare cosa”, gli anziani si collegheranno a Internet, e via di seguito.
Sarà perché di mestiere disegno scenari, ma proprio non riesco a capire come si possa partire dal codice Java o dagli algoritmi di compressione delle immagini di radiologia. Il primo compito che spetta ai nuovi leader dell’agenda digitale dovrebbe a mio parere essere questo: raccogliere disegni di scenario.
Non dimentichiamoci che persino l’industria ICT ne ha bisogno come il pane: vendere tecnologia tanto per venderla, costruire data center tanto per costruirli, non serve a nulla se non a chiudere decentemente un trimestre di vendite. Ma non è questo il vero scopo del gioco.
Sviluppare un ecosistema digitale è qualcosa di molto più serio e complesso del vendere una mezza tonnellata di server e qualche dozzina di piattaforme software. IaaS, PaaS, SaaS non sono che slogan, se non decidiamo a monte a cosa diavolo puntiamo a livello di Paese.
E questo, scusate se ve lo ripeto, non è un mestiere che possiamo lasciare ai soli tecnologi.
Scenario significa impulso creativo, capacità di razionalizzarlo, capacità di comunicarlo e di “venderlo” ai cittadini, agli operatori della PA, all’elettrauto sotto casa mia.
Al fondo, solamente al fondo, arriva il tecnologo a proporci la migliore soluzione.
Il bello è che, arrivando in clamoroso ritardo, possiamo tranquillamente e spudoratamente copiare dagli altri Paesi, analizzandone gli errori ed evitando di ricascarci dentro a pié pari.
Perché se anche a questo giro ne facciamo una lotta di casta, ingegneri contro comunicatori, informatici contro economisti, Orazi contro Curiazi, non ne usciremo vivi.