Nel lento processo di rinnovamento della PA, si enfatizza la funzione della tecnologia quale strumento di efficienza ‘di per sé’ postiva, e la si delinea come l’alleato unico per snellire, riformulare, ottimizzare i processi burocratici.
Nonostante se ne parli da anni, le disfatte, in termini di risultati, sono sotto gli occhi di tutti: se si dà conto degli straordinari investimenti economici occorsi in questi anni sul tema dell’innovazione (basti pensare ai progetti nazionali di e-gov), ci si può rendere conto dei risultati ampiamente insufficienti a dispetto delle aspettative e delle risorse impiegate.
Ciònostante, si continua a coltivare l’illusione che la tecnologia, o se vogliamo la tecnocrazia, rappresenti l’unica e definitiva via per la risoluzione dei problemi ed ilr ecupero di efficienza della PA italiana.
A dar man forte a questa visione, si è assistito in questi anni ad una proliferazione di normative, presuntamente prescrittive, di fatto mere enunciazioni di principio, che avrebbero dovuto fare da volano all’innovazione: molte di queste prescrizioni, basti pensare alle norme presenti nel Codice dell’Amministrazione Digitale, sono rimaste disattese nonostante la loro reiterazione nel corso degli anni. Segno se non altro, che erano e rimanevano ampiamente teoriche, non calate nella multiforme varietà dell’amministrazione pubblica, e soprattutto fornivano agli Enti, anche oggi, il facile alibi ‘ad impossibilia nemo tenetur’, complice la prescrizione, anche questa illusoria, che le azioni non dovessero essere onerose per la finanza pubblica, nonchè il cronico ritardo dei regolamenti tecnici attuativi.
Il Codice, d’altro canto, entrato in vigore nel 2006, è stato oggetto di 133 modifiche ed integrazioni operate, in questi anni, da 2 Leggi, 5 Decreti Legislativi e ben 13 Decreti-Legge: solo 16 articoli, sugli attuali 102, non sono stati mai modificati: alcuni sono stati inseriti e subito dopo cancellati quasi segno tangibile di un parziale stato confusionale ovvero dell’eccessiva preponderanza, in sede legislativa, di un approccio meramente tecnico che nha tenuto in conto il contesto giuridico-normativo e politico in cui la norma andava ad operare.
Alcune, ultime. iniziative sono di per sé, ancorchè tardive, encomiabili: si pensi all’Anagrafe Nazionale (ANPR) che però si innesta con difficoltà in un contesto ove i Comuni hanno già tutti una propria soluzione gestionale che è diventata un punto centrale e nevralgico per tutta le applicazioni che ruotano intorno alla gestione della demografia. L’Anagrafe non è solo certificazione (anzi lo è sempre meno), e l’accesso ai dati anagrafici è ormai una componente integrata ed imprescindibile nelle applicazioni già sviluppate per altri ambiti comunali, si pensi all’assistenza sociale, ai tributi, al commercio. La piattaforma anagrafica nazionale sarebbe stata altamente innovativa negli anni 80-90, oggi corre il rischio di essere una replica, una somma, di quelle locali, con tutti i rischi del caso ed i maggiori costi di gestione, per gli Enti, costretti a mantenere in vita 2 registri di anagrafe, per non buttare al vento anni di investimenti e di sviluppi nel proprio sistema informativo ovvero perdere in funzionalità data dalla stretta interelazione tra gli archivi anagrafici e le multifunzionali applicazioni già realizzate
L’esempio dell’ANPR sposta la questione sull’incapacità dei livelli statali e regionali di offrire, al di là di prescrizioni, piattaforme ovvero servizi telematici in grado di fornire soluzioni agili, interoperabili, efficienti. Prendiamo il caso della trasparenza: una vera attenzione alla trasparenza avrebbe messo in primo piano la messa a disposizione degli enti destinatari degli obblighi di pubblicazione di una piattaforma unica nazionale, che avrebbe garantito tra l’altro una reale interoperabilità dei dati ed una forma di pubblicità nazionale, evitando inoltre interpretazioni difformi tra gli Enti. E mentre per ANPR tutti i comuni come si è visto già dispongono del software di gestione, per la trasparenza ogni Ente sta cercando di provvedere in proprio, con costi reali ben al di là delle teoriche prescrizioni di costo zero per le finanze pubbliche: I dati non fluiscono magicamente nel sistema di pubblicazione, né questi può essere realizzato senza costi aggiuntivi. Non basta dire che deve essere pubblicato su internet per pensare che non ci siano costi!
Anche quando si parla di burocrazia 0,ovvero di semplificazione si corre il rischio di lanciare un boomerang: se la semplificazione si riduce alla possibilità di inoltrare le pratiche telematicamente, anziché di presenza, e rimangono intatte le norme che prevedono marche da bollo, in assenza di un sistema nazionale di pagamento e riscontro, più volte promesso, l’inoltro telematico viene di fatto penalizzato se non reso impossibile (come è stato in questi anni).
Ed ancora, pensare che basta l’etichetta Elettronica alla Carta di Identità per aprire nuove possibilità, l’aver costruito una carta altamente tecnologica ha portato di fatto alla sua inutilizzazione come strumento di accesso, stante le difficoltà operative non ultimo quella di essere basata sulla presenza di un apparato, il lettore di chip, poco diffuso. Sostanzialmente è oggi richiesta più perché facilmente collocabile nei portafogli moderni che per entrare nei sistemi telematici come elemento di identificazione forte. E il Documento Unico di prossima attivazione corre il rischio di seguirne l’esempio. Intanto ci si è accorti che forse un sistema di identificazione unico, o una federazione di sistemi, potrebbe favorire l’accesso ai servizi degli Enti: ecco pronto il progetto SPID. Ma il metodo più veloce e semplice, dare alle credenziali della PEC rilasciata dal Governo gratuitamente, anche la funzione di credenziale per l’accesso a tutti i servizi della PA è sembrato troppo innovativo ed economico. Meglio avviare nuovi tavoli, nuovi progetti, nuove spese e relagare rigorosamente la PEC ad un ruolo di mero strumento off-line e asincrono.
Quali soluzioni sono dunque possibili? La tecnologia rappresenta davvero solo un’illusione?
Bisogna intendersi: la vera rivoluzione nella PA è organizzativa e procedurale, non tecnologica. Partire da quest’ultima, come professano inascoltati tutti i testi sull’automazione dei processi, è un’errore irrimediabile: non oso pensare voluto, di sicuro frutto di una eccessiva enfasi sulla speranza che la tecnologia sia oggettiva, precisa, insensibile alle inefficienze e curativa di tutte le incongruenze dei processi della PA.
Sono dunque le norme, e soprattutto l’enorme mole di eccezioni, che producono una burocrazia lenta, presuntamente precisa, ingessata nel rispetto della forma.
La tecnologia non può venire in soccorso con esiti positivi scontati, anzi, può rappresentare un orpello aggravante, non potendo mettere ordine all’insensato, spesso inspiegabile, corto-circuito procedurale della nostra burocrazia.
E non sempre la tecnologia può essere applicata a tutti i contesti senza tener conto, banalmente, della quantità delle operazioni da svolgere: la PEC, così utile per ambiti specifici, è uno strumento devastante, da un punto di vista gestionale, se utilizzato per ricevere o inviare migliaia di pratiche, capace solo di intasare le caselle di posta senza alcun sensibile vantaggio, necessitando risorse umane e tecnologiche per smaltire allegati che rientreranno, normalmente, nella gestione tradizionale. Senza contare le questioni di carattere meramente burocratico: per esempio, l’allegato è da considerarsi valido? E’ firmato digitalmente, o proviene da una pec gov.it, o da una pec-id e non deve essere sottoscritto? L’allegato è riferito alla stessa persona titolare della casella pec?
Il processo di riforma della PA ha di sicuro un alleato, ma non necessariamente il principale, nella tecnologia. Questa deve innestarsi su una revisione ed una semplificazione delle norme su paradigmi radicalmente nuovi: non è l’uso della tecnologia che semplifica, occorre ribaltare le fondamenta su cui tutto il nostro apparato burocratico si basa. Unica via possibile, con o senza l’accordo degli apparati, quelli tecnocratici inclusi, notoriamente tesi a dare un ruolo alla propria presenza.
D’altro canto non è il proliferare di norme lo scudo che può essere usato per sfondare le barricate burocratiche, quelle del ‘non si può fare per il congiunto disposto del comma x dell’art y e del punto f del comma d dell’art.z’. Lo Stato e le Regioni, per le rispettive competenze, oltre a prescrivere dovrebbero fornire gli strumenti: non tanto finanziari quanto quelli operativi che consentano il rispetto delle norme emanate, in relazione alla complessità degli Enti, e ne facilitino la puntuale applicazione. Ed allora sì che forse si potrà inziare a parlare anche di Open Data non come una parola di moda, come etichetta formale, ma come uno strumento di conoscenza e di governo che beneficia di una Amministrazione che sa guardare in sé stessa e sa con chiarezza mostrare una vera conoscenza dei propri processi e dei propri dati.
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