l'analisi

Mochi: “Troppa tifoseria sul digitale, per cambiare il Paese serve coerenza”

Le proposte del Governo sul digitale, complici i titoli strillati dei giornali, hanno creato un clima di tifosera, non di confronto. Dal ritorno al contante allo Spid, al cellulare in classe, proviamo a vedere se possiamo imparare qualcosa, pur restando contrari a quello che può rallentare la trasformazione del Paese

Pubblicato il 02 Gen 2023

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04La riflessione su quel che ci aspetta in questo 2023 per rispettare gli impegni presi e per proseguire senza arretrare nel cammino verso uno sviluppo equo e sostenibile, sorretto da una trasformazione digitale giusta ed inclusiva, non può che partire da quel che è successo negli ultimi due mesi, ossia dall’insediamento del nuovo Governo.

Non parlerò qui delle grandi sfide come il Polo Strategico nazionale o la cosiddetta Rete nazionale o, ancora, dell’Italia a un giga, perché già ampiamente trattati da questa testata, ma piuttosto di quei provvedimenti che, seppure minori, hanno dato all’opinione pubblica la netta impressione di un cambio di rotta nella digitalizzazione del Paese e hanno riempito i giornali di posizioni rigidamente pro o contro.

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Le false antonomie che ostacolano il confronto

In un recente articolo nella sua rubrica “L’amaca”, Michele Serra ricorda tutti i recenti interventi, arrivati al traguardo o meno, che in un qualche modo sono stati realmente, o sono stati comunque percepiti come “contro” la digitalizzazione del Paese. Conclude che è tutto sommato un bene “la manifestazione di un pensiero limpidamente reazionario, nel senso classico: reazione negativa di fronte alle novità.”

Come sempre Serra è stimolante anche nelle provocazioni, ma credo che sia necessario per noi, che della trasformazione digitale abbiamo fatto il nostro campo d’azione professionale, andare a guardar dentro a queste proposte di nuove norme. Proviamo a vedere se comunque, pur conservando noi una decisa opposizione a tutto quello che possa rallentare questo processo, possiamo imparare qualcosa da questa vicenda.

La mia tesi è che, ancora una volta, rischiamo di farci trascinare in una gabbia fatta da false antinomie che disegnano un continuo gioco della torre, quello in cui si deve decidere chi buttar giù. I media, soprattutto quelli online, ma anche i cartacei con i loro titoli strillati, non ci aiutano in questo senso e spesso ci troviamo, inconsapevolmente, in un clima di tifoseria piuttosto che di confronto.

Le proposte del Governo Meloni

Cominciamo proprio dai provvedimenti o dalle proposte del Governo Meloni, in tema di trasformazione digitale, che hanno fatto più discutere.

Il ritorno al contante

Certamente il primo tema è quello del ritorno al contante rispetto alla moneta elettronica. Tralascio la parte che riguarda il limite al contante perché ci porterebbe lontano dal ragionamento che voglio fare e mi concentro sull’importo minimo al di sotto del quale scatta l’obbligo di accettare i pagamenti elettronici da parte di qualsiasi operatore economico. Qui la falsa scelta, che è passata in quasi tutta la comunicazione, era tra la libertà di pagare come ciascuno vuole, anche ricordando quella parte della popolazione che si trova meglio con i contanti, e la libertà di usare sempre, anche per importi molto bassi, le carte o i sistemi di pagamento digitali. Qui la confutazione è banale: nessuno ha mai pensato di limitare la libertà di usare il contante, non c’è mai stato nessun pericolo, per chi ha difficoltà con le carte o ama tirar fuori le banconote, di non poterlo fare liberamente ovunque; casomai la norma, per fortuna rientrata (grazie Europa!), era una limitazione della libertà di chi, come me, preferisce girare senza contante e lo fa tranquillamente in tutto il mondo. Abbiamo detto che da ogni norma, sia o no andata a buon fine, dovremmo imparare qualcosa e qui l’insegnamento è chiaro: diffidiamo delle semplificazioni della comunicazione politica. Sentir dire che il tetto a 60 euro dell’obbligo di accettare i pagamenti elettronici potrebbe sfavorire il turismo non è solo fuorviante, è ridicolo.

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L’uso del cellulare in classe

Se nel caso del contante la gabbia dell’antinomia aveva grossi buchi attraverso i quali, con un po’ di buon senso, non era difficile uscire, più rischiosa è la scelta relativa all’uso del cellulare in classe, la cui proibizione, vecchia di quindici anni, è stata con forza reiterata dal Ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara, paragonando l’addiction da telefonino all’addiction da cocaina.

Smartphone sì o smartphone no in classe? Anche qui il gioco della torre non funziona e mi rifiuto di infilarmi nella gabbia. La risposta, infatti, non può che dipendere dalla qualità e dalla metodologia di insegnamento che si svolge in ogni classe e da quanto la scuola italiana sia oggi capace di interloquire con la vita dei ragazzi fuori delle aule, in una dialettica continua che, senza complicità né acquiescenza, istituisca un ininterrotto dialogo tra dentro e fuori. Riprendo una frase da un ottimo articolo di Antonio Polito sul Corriere della Sera del 21 dicembre scorso, che sottoscrivo in pieno. Dice Polito: “Gli smartphone e la vita scolastica sono oggi incompatibili. E questo è un fatto. Ma temo che sia una brutta notizia più per la scuola che per gli smartphone.” Come sa chiunque che, come me, organizza convegni e riunioni, il cellulare acceso può essere un enorme disturbo e indurre a volare fuori dalla sala, in altre faccende affaccendati, ma può essere anche uno straordinario strumento di interattività, ovunque si abbandoni una comunicazione ad un solo senso e si accetti che le lezioni, così come le relazioni congressuali, non possono essere più solo frontali. Questo vuol dire che il cellulare in classe va sempre bene e che dobbiamo comunque accettarlo? Certo che no: riecco la gabbia. Dobbiamo usare sapienza e discernimento, professionalità ed empatia per capire quando e come questo strumento così importante per tutti i nostri ragazzi può essere un alleato. Soffermarci a riflettere, anche qui, ci aiuta a evitare giudizi apodittici e definitivi e ad entrare nei problemi con lo spirito di chi vuol sciogliere i nodi e non tagliarli con improbabili spade.

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Spid sì o Spid no?

Infine, una terza falsa antinomia, che ha portato anche a molta confusione, si è affacciata nel difficile percorso del Paese verso una maggiore digitalizzazione. Parlo del giudizio sullo Spid e quindi la decisione se il Sistema Pubblico di Identità Digitale debba essere piano piano abbandonato e spento in vista di un unico strumento dato dalla Carta di Identità Elettronica (CIE). Spid sì o Spid no quindi? Torna il gioco della torre che già in premessa abbiamo rifiutato. E’ palesemente assurdo abbandonare uno strumento che a oggi ha 33.173.400 identità erogate (oltre il 54% della popolazione italiana) con oltre 12mila amministrazioni attive e quasi 150 gestori privati che danno accesso ai propri servizi tramite Spid. Insomma, se chiudere Spid sarebbe sbagliato, come peraltro lo stesso Sottosegretario Butti, dopo una prima dichiarazione un po’ troppo tranchant, ha ammesso, allora vuol dire che va bene così? Anche qui una manichea semplificazione non ci aiuta. Acquisire l’identità digitale è ancora troppo complicato per una fetta non piccola della popolazione, i servizi offerti sono ancora troppo pochi e spesso non sono servizi in senso stretto, ma adempimenti che i cittadini attraverso Spid fanno come supplenti di amministrazioni che non si parlano tra loro e continuano a chiedere a ciascuno di noi cose che dovrebbe ben sapere, se solo avessero database accessibili (evito la parola interoperabili perché sono ormai allergico). Quindi, se lo “spegnimento” dello Spid è sbagliato e impraticabile, è invece corretta e condivisibile la preoccupazione: avere servizi digitali più facili e inclusivi. La trasformazione digitale non ha senso se invece che ridurre aumenta le disuguaglianze, ma perché sia uno strumento di inclusione non possiamo tornare indietro.

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Conclusioni

Questi tre esempi, che peraltro hanno portato a interminabili discussioni intorno a una scelta alternativa, bianco o nero, che in effetti non c’era, ci inducono ad augurarci un 2023 di lavoro intenso, ma normale, senza stravolgimenti né grandi annunci. Abbiamo tante cose da fare, tanti traguardi da raggiungere già definiti in migliaia di pagine di documenti, tanti ostacoli da superare, soprattutto in termini di qualità e quantità delle competenze a disposizione di cittadini e imprese, che consiglio un passo da montanaro. Un passo regolare che non fa strappi di corsa, ma che, un piede avanti all’altro, non si ferma sino a che non è arrivato alla meta. E spesso arriva prima di chi, per sciatteria o fretta, accelerando non vede i segni del sentiero e deve poi tornare indietro per rientrare sulla corretta via.

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